Sono ripetitivo, ma certe cose bisogna ripeterle.
Andiamoci piano con i paragoni tra Catalogna e Sardegna.
Tra le due nazioni c’è una differenza più grande del Monte di Marganai: la Catalogna ha, da sempre, una borghesia nazionale e la Sardegna ha una borghesia compradora, tanto per citare il grande Mialinu Pira.
Questa differenza si riflette in tutti gli aspetti della vita sociale, ma anche privata.
Quando, chi è in grado di influenzare il comportamento dei gruppi sociali più o meno consistenti–e non pensate necessariamente a un politico o a un personaggio della TV, ma vanno bene anche il medico di famiglia, il parroco, il proprietario del supermercato, l’insegnante–aderisce a modelli culturali eterocentrati, tutte le persone che li circondano e che riconoscono loro una funzione sociale e un certo prestigio ne rimangono influenzate.
Del resto, sono queste persone con cui ci confrontiamo quotidianamente sia socialmente, sia–più specificamente–nelle nostre interazioni linguistiche.
Provate a immaginare cosa succederebbe se queste figure sociali decidessero di parlare in sardo con tutte le persone con cui hanno contatto.
Provate a immaginare un supermercato con i nomi dei prodotti scritti in sardo.
O una maestra che non insegna il sardo–queste esistono già–ma si rivolge agli alunni in sardo per tutte le altre questioni.
Ecco allora avreste la Catalogna prima della fine del franchismo.
In termini più rigorosi, si avrebbe una situazione di “diglossia”.
E questa è stata la situazione in Sardegna fino agli anni Sessanta–nelle situazioni urbane–e Settanta–nei piccoli centri.
Nel mentre è successo il massacro dell’identità–non solo linguistica–dei Sardi.
Erano gli anni del “Mi che non voglio a parlarlo in sardo a mio figlio!”
E ancora questa follia non è stata fermata: ancora una decina di anni fa ho assistito a una scena incredibile, per molti versi.
Ero con un amico in una panetteria di Scanu Montiferru per osservare il comportamento linguistico dei presenti.
Tutti parlavano normalmente in sardo tra di loro, ma poi è entrato un bambino di 8 anni circa.
Improvvisamente tutti hanno cominciato a parlare in italiano, anche tra di loro.
La cosa più tragicomica si è verificata all’esterno della panetteria.
Il bambino ero accompagnato dalla nonna che si sforzava anche lei di parlargli in italiano, ma con dei risultati, appunto, tragicomici.
In Sardegna, cioè, si è passati in una quarantina d’anni dalla “diglossia” al “bilinguismo verticale”.
La diglossia implica che, nelle situazioni di normale interazione linguistica–per esempio, in una panetteria–si usi la lingua “bassa”, non prestigiosa. Mentre l’uso della lingua prestigiosa viene relegato alle situazioni formali, ufficiali.
La situazione attuale è stata definita “dilalia” dal linguista italiano Berruto, che la definisce come un caso speciale di diglossia: una situazione in cui la lingua prestigiosa penetra anche nelle situazioni informali, normali.
Ma Marco Tamburelli ha rifiutato questa definizione perché formulata ad hoc per la situazione dello stato italiano e anche perché la lingua ufficiale–in una forma o nell’altra–viene anche appresa come L1: cosa questa che esclude la diglossia.
Tamburelli definisce questa situazione “bilinguismo verticale”: le due lingue coesistono, ma non hanno una distribuzione complementare, come nel caso della diglossia.
La lingua prestigiosa occupa gli spazi che fino alla situazione precedente era riservati alla lingua autoctona.
Questo in Catalogna non si è verificato.
Ecco perché sono potuti passare in pochissimo tempo–alla fine del franchismo–dalla diglossia al bilinguismo orizzontale, con le due lingue situate a pari livello di formalità e di prestigio.
Insomma, quello che da noi si definisce come “bilinguismo perfetto”.
La situazione in Sardegna è paragonabile a quella dell’Irlanda a un certo punto della sua storia, nel 1800.
A creare la situazione di “bilinguismo verticale” sono stati i Sardi stessi.
O meglio la classe dirigente sarda.
Una minoranza che ha imposto–con l’esempio e il proprio prestigio sociale–la marginalizzazione quasi totale del sardo.
Se questa situazione non viene ribaltata, non basterà il miliardo di euro che l’Irlanda spende ogni anno per la lingua autoctona–come ha fatto notare Fabritziu Pedes–per salvare il sardo dall’estinzione.
L’unica soluzione è quella di rifiutare l’imposizione del monolinguismo in italiano (di Sardegna, tra l’altro) e praticare da subito il bilinguismo orizzontale.
Cioè chi ha a cuore le sorti della nostra lingua deve usarla in tutte le situazioni in cui i bottegai, i dottorucoli, i pastoracci di anime, la nonna ignorante di quel bambino di Scanu la rifiutano.
Siamo una minoranza, così come lo sono loro.
E noi adesso abbiamo un vantaggio: tutti sappiamo che lasciare il sardo per l’italiano non porta a niente di buono.
L’italiano è la lingua della democrazia più corrotta del mondo e in più adesso sono anche col culo per terra.
Ecco a cosa ci ha portato l’italiano: al monolinguismo miserabile