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May 10, 2017

L’Isola del Cavolo, a Sud-est della Sardignolia

Quisquilie!

Pinzellacchere!

Anche a certi indipendentisti non è piaciuto il nostro accanimento sulla questione del cavolo/cavuru.

Vero che i Sardi si indignano un po’ a catzu de cane, ma questa non era una questione da poco: si trattava di stabilire se la narrazione (uff: dd’apu imperau deu puru custu fueddu) che gli Italiani (dico, era la RAI, eh!) fanno di noi si deve continuare a inghiottire senza reagire, come sempre i Sardi hanno fatto.

Dietro il nostro compiacimento nell’averli beccati, c’era la rabbia per la narrazione della Sardegna come terra di violenti e di banditi e di gente che sparge puntine sulle strade del (presa in) Giro.

La narrazione razzista, eternamente funzionale al colonialismo e complementare alla censura illegale dei Sardi che protestavano contro l’occupazione militare.

Non c’è bisogno di pensare al Grande Gombloddo RAI, ma basta la cultura che impregna questa fondamentale istituzione italiana a spiegare la coerenza dei commenti dei giornalisti a due ruote e quella delle forze di repressione.

Solo loro sono autorizzati a raccontare la Sardegna al mondo esterno.

Loro e solo loro.

E così l'”Isola dei Cavoli” ci ha dato l’occasione per ridicolizzare, almeno al nostro interno, la RAI e gli Italiani e lo specchio attraverso il quale noi dovremmo sempre rifletterci.

Non era un’operazione filologica, era un episodio della nostra guerra di liberazione dal colonialismo, che è sempre e soprattutto colonialismo culturale.

Se elimini lo specchio italiano, il Sardignolo si rivela nudo come un verme e vergognosamente ignorante di se stesso.

Nicolinu Migheli, e questo gli fa onore, davanti al documento prodotto qui sopra, si è perfino messo in discussione e ha fatto autocritica (“Contrordine compagni, abbiamo preso un granchio!”: letteralmente in questo caso), ma affrettatamente: “Delli Cavoli vulgo dicta ” riporta il Fara.

Il nome italiano dell’isola sarebbe attestato già nei testi sacri del XVI secolo.

Ma immediatamente, io linguista, e perciò empirista, colgo il quel “Vulgo dicta” una contraddizione insanabile.

Il popolo sardo non avrebbe mai potuto chiamarla così.

La mia reazione immediata è: serve un parlante nativo della zona.

Maurizio Virdis conferma la scorrettezza della denominazione: “Questa è l’edizione di V. Angius (1838). In quella del Cibrario (1835), vien detto “a Plinio et Mariano Capella, Insula delli Cavoli dicta”. Va controllata quella moderna di E. Cadoni.”

Quindi, quel “Vulgo dicta” è un’aggiunta arbitraria.

Tutta l’affidabilità del testo sacro evapora.

Nel mentre arrivano le conferme da due amici che hanno appreso la denominazione sarda dai pescatori del luogo.

E l’isola risulta essere vulgo dicta “de is cavurus”: ringrazio le fonti Antonio e Gian Piero.

Il granchio di Nicolinu era un’aragosta.

Col cavolo, insomma, che la denominazione italiana ci appiccica.

Assolviamo, allora, ma solo per questo dettaglio, il giornalismo ciclabile: le colpe dei padri sono ricadute sui figli.

E ribadiamo la condanna dell’incultura sardignola, quello specchio che vorrebbe farci credere che noi siamo quello che raccontano gli Italiani.