Come si sa, io non sono un indipendentista, o almeno non lo sono in senso stretto.
E non credo che gli indipendentisti–in senso stretto: quelli che vedono lo stato sardo come obiettivo principale–mi considerino uno dei loro.
Ciononostante, credo che un forte movimento indipendentista serva a tutti i sardi, visto che gli italiani capiscono soltanto la forza e sono forti con i deboli e deboli con i forti, come diceva già Pietro Nenni.
Il movimento indipendentista è debole, anzi debolissimo, come hanno dimostrato le manifestazioni di Cagliari e di Teulada.
Come mai?
La mia opinione di osservatore esterno, ma interessato, è che il movimento sia affetto da una debolezza gravissima e congenita, che va ben oltre quella provocata dai protagonismi e i narcisismi dei vari capi, capetti e amati leader vari.
Il movimento è affetto fin dalla nascita da una strana forma di leninismo infantile: credere che basti volere la repubblica sarda e gridare “A innantis fintzas a sa repubblica” per arrivare all’indipendenza statuale.
Purtroppo per loro, non c’è (ancora) una guerra mondiale da cui uscire sconfitti (gli italiani) e un Palazzo d’Inverno da assaltare in trecento, giovani e forti.
Intanto, i giovanotti degli esordi dell’indipendentismo si avviano alla mezza età, mentre gli amati leader sono miei coetanei e alla mia età ci possiamo definire anziani.
Alla mia età, o si diventa finalmente saggi o ci si incammina sull’inesorabile sentiero del rincoglionimento.
A loro la scelta.
Alla nostra età, o si capisce che l’ottimismo della volontà non basta–e che scorciatoie, la storia, non ne offre: si veda proprio l’immediata degenerazione della rivoluzione sovietica–o si è privi del pessimismo che viene dall’intelligenza.
Per costruire uno stato indipendente, occorre costruire prima un corpo sociale maggioritario che lo sostenga: la nazione.
I signori se ne erano dimenticati–che sbadati!–e continuano a dimenticarsene–ma allora non sono sbadati!–o a credere che la nazione venga dal legame col sangue e con il sacro suolo della patria: BLUT UND BODEN.
Eja, se avete fatto quell’associazione, avete capito giusto.
No, cari i miei anziani e amati leader e cari i miei giovanotti di mezza età.
La nazione è una tecnologia sociale.
La nazione va costruita lavorando: costruendo la cultura nazionale del popolo sardo.
Liberatevi dal veleno sparso abbondantemente nel passato da falsi leader che teorizzavano “sa repubbrichedda italiana de Sardinnia”, senza lingua e senza identità.
Liberatevene, perché oggi solo un cieco–o un tonto–non vede che siete–e con voi, noi tutti–finiti in un vicolo cieco.
Non contate–e non contiamo–una minca.
L’abbiamo visto a Teulada.
Io ho tristemente preso atto della realtà.
Io–fuori dalla politica e dalla Sardegna–continuo a fare quello che posso e che mi spetta: studiare, riflettere, fare proposte.
Voi, se volete continuare a fare politica, stendete un programma unitario di politica culturale e incalzate questa giunta di latitanti, lavorando soprattutto sulle contraddizioni dei “sovranisti”.
La giunta Pigliaru non ha una politica culturale e questo vuoto è espresso magnificamente dall’assessora Firino.
Se Ugo Cappellacci era un ologramma trasmesso da Mediaset, lei non è neppure quello.
Fatele voi le proposte per una politica culturale nazionale della Sardegna.
Mettete questi latitanti con le spalle al muro.
Stanateli.
Dimostrate di essere classe dirigente e non dei ragazzini invecchiati, ma ancora sterilemente megalomani.