È stata dura, ma alla fine il “Madame Bovary” l’ho letto tutto.
Perché l’ho letto?
Boh?
Un po’ per caso–l’ho comprato, per un euro, al mercato libero, il giorno de Re: sono in Olanda, eh!–un po’ perché è uno di quei classici che io mi sono sempre rifutato di leggere: molto letterari, molto ottocento borghese.
Io che ho grandissime difficoltà a prendere sul serio grandi romanzieri moderni.
Una sfida, insomma.
Effettivamente …
Du’ palle!
Disgustosamente letterario.
Proprio da fare schifo: “Da quel momento in poi il ricordo di Léon divenne il centro della sua tristezza; questo brillava più forte del fuoco dei viaggiatori che, nella steppa russa, devono passare la notte nella neve.”
Flaubert nella steppa russa, ovviamente, non c’era mai stato.
Letteratura.
Letteraturame di un sentimentalismo disgustoso.
E poi Emma Bovary!
Ajò: un manichino senza alcuna credibilità psicologia, che Flaubert usa soltanto per appenderci le sue idee.
Eppure Emma Bovary è immortale: sì, insomma, finché duriamo noi europei, eh!
Allora, se vuoi capire devi arrivare fino alla fine.
Leggere “Madame Bovary” è una tortura, ma ci sarà pure una ragione per cui è considerato una pietra miliare della letteratura moderna.
Poi arrivi a un punto talmente comico/ridicolo, in cui sentimentalismo e prosaicità vengono alternati, che non puoi fare a meno di chiederti: “O Flaubert, ma ci sei o ci fai?”
Emma Bovary e il suo spasimante sono alla Conferenza sull’Agricoltura, in questa bidda da nulla della Normandia. Lui le sta facendo una corte discreta, ma spietata.
Flaubert a questo punto alterna gli annunci dei relatori della conferenza con il’interazione tra i due–futuri–amanti:
“Razze suine: Il premio è diviso tra due vincitori: i signori Léberisse e Coulembourg. A ciascuno vanno sessanta franchi!
Rodolphe strinse la mano di lei nella sua e sentì quanto questa fosse calda e che lei tremava come una tortora imprigionata, che vuole di nuovo volar via.”
Qui i casi sono due: Flaubert è davvero sentimentale fino all’idiozia, oppure fino a questo punto ha spudoratamente preso in giro il lettore: e siamo a metà del libro.
Da questo punto in poi cominci a dubitare–non dimentichiamoci che il libro è apparso come feuiletton in un quotidiano del 1856 ed era rivolto quindi a un pubblico che il sentimentalismo lo esigeva–e ti irriti ancora di più alle smancerie dei personaggi.
Purtroppo, le smancerie dei personaggi sono indistinguibili da quello che il narratore onniscente ci racconta, visto che è lui a descriverci non solo le loro azioni, ma anche i loro pensieri.
Insomma: Flaubert non ha a disposizione i mezzi tecnici per distinguere se stesso dai suoi personaggi.
Una bella rottura per il lettore e una bella confusione.
E così per un po’ segui gli sdilinquimenti di Emma Bovary e pensi di averla inquadrata, mentre improvvisamente lei cambia personalità e identità.
E questo succede nel romanzo una decina di volte.
Emma Bovary non ha una personalità, non ha un’identità, è soltanto un manichino–una mannequin–bello da vedere e che serve a Flaubert per appenderci le sue idee.
Emma finisce male–poco male: non vale un cazzo!–ma trascina con se tutti i suoi cari.
Questo è il messaggio di Flaubert.
Il pregio del libro è che per arrivarci. al messaggio, devi leggertelo tutto.
In effetti una beffa per i suoi lettori che fino alla fine si sono bevuti dosi da cavallo di sentimentalismo e ne hanno goduto.
Il libro è feroce fino al cinismo: altro che sentimentale!
Ma questo lo scopri solo alla fine.
Che figlio di bagassa, ‘sto Flaubert!
Nel mentre lo hanno pagato e lui ha mangiato: mica male!
“Madame Bovary” è scritto agli albori della rivoluzione industriale in Francia.
Il potere culturale, politico, generale, della borghesia comincia ad assestarsi.
Chi è “Madame Bovary”?
La borghesia provinciale, travolta dalla rivoluzione industriale e urbana?
Boh?
Emma Bovary è il personaggio, mal disegnato, di un romanzo dell’Ottocento.
Eppure ti fa pensare.
Ti trumbullat.
È una borghese di provincia, senza indentità, che si innamora di chiunque si innamori di lei, e che cammina inesorabilmente verso la propria rovina e quella dei suoi cari, perché non ha nessuna bussola interna a guidarla.
Come Don Quijote, a guidarla ha solo le sue letture, i suoi romanzi.
Lo so che questo è un messaggio universale, ma a me fa tanto pensare alla borghesia sardignola.