Guardatevi il numero e la qualità dei commenti all’articolo di Vito Biolchini: Di come da Cagliari partirà la rinascita del sardo attraverso dei fenomenali flash mob linguistici! Chi ci sta, dica “Ci seu!”
Forse ci siamo.
Forse questa volta arriviamo a quella “massa critica” che ho ipotizzato anni fa : sa vindita de Tziu Paddori
Cosa vuol dire?
Vuol dire raggiungere quel numero minimo (e sconosciuto) di parlanti del sardo che usa la nostra lingua anche in quelle situazioni in cui le convenzioni sociali non scritte ammettono soltanto l’uso dell’italiano (più o meno di Sardegna).
Come si sono instaurate quelle convenzioni sociali lo sappiamo, almeno nelle grandi linee.
Leggetevi o rileggetevi quello che ho scritto sulla storia del sardo e sul come siamo arrivati alla progressiva esclusione del sardo dalla vita pubblica: Sardegna fra tante lingue
Come far uscire il sardo dal ghetto del giro degli amici e famigliari, l’ho anche già detto tante volte in questo blog: basta mettersi a usarlo anche con gli sconosciuti.
Quando ci sarà un numero minimo di Sardi a farlo (la massa critica, appunto) per tutti i Sardi diventerà un’esperienza quotidiana l’essere apostrofati per strada nella nostra lingua.
Passato lo stupore iniziale, i Sardi troveranno normale quello che dovrebbe essere la cosa più normale del mondo: tra Sardi ci si parla in sardo.
Dopo di che, ognuno farà quello che vuole: si instaurerà una situazione di libera concorrenza tra le due lingue.
Oggi, malgrado le stupidaggini che si sentono in giro, questa libertà di scegliere non esiste, come sa bene chi come me questa cosa non solo la predica,ma la pratica anche.
Usare il sardo nel rivolgersi agli sconosciuti crea disagio.
Bisogna essere abbastanza sicuri di se per non arrendersi di fronte alle risposte inesorabilmente in italiano che si ricevono.
Per questo io avverto sempre di andarci piano, prendendo la Catalogna a modello.
In occasione delle elezioni regionali di qualche settimana fa, sul giornale più prestigioso dell’Olanda hanno pubblicato quattro interviste con dei Catalani.
Uno di questi era figlio di non-Catalani e ha detto: “Il catalano è la lingua della borghesia. Se vuoi avere successo sociale in Catalogna, devi parlare la loro lingua.”
Il catalano è quindi la lingua della classe dirigente catalana.
In Sardegna, l’italiano è la lingua della classe dirigente isolana, compresa quella fetta che si propone come alternativa al dominio politico italiano.
ProgReS addirittura lo teorizza.
Chi vuole che il sardo si rivitalizzi si sta, di fatto, proponendo come classe dirigente della Sardegna, ma forse non se ne rende conto.
E forse è per questo che non trasforma il suo desiderio in un progetto politico che richiede dei comportamenti coerenti.
Non si può essere a favore della rivitalizzazione del sardo e poi continuare a parlare in italiano con gli sconosciuti o a usare esclusivamente l’italiano per elaborare dei ragionamenti complessi: come ho visto fare alla festa di ProgReS, l’estate scorsa e, oltretutto, da parte del suo presidente.
Far uscire il sardo dal ghetto significa fare una rivoluzione culturale dalle conseguenze inimmaginabili. Significa tagliare il cordone ombelicale con l’Italia e con quella scuola che ci ha traumatizzato da bambini.
Per poter fare questa rivoluzione al di fuori di noi, dobbiamo prima farla dentro di noi: dobbiamo liberarci dalla cultura italiana e dai suoi condizionamenti psicologici.
Questa è una cosa estremamente difficile da fare se ci si prova da soli.
Non so se io ci sarei riuscito se non vivessi in Olanda da 30 anni e se non avessi frequentato qui l’università.
Ecco perché l’iniziativa della Fondazione Sardinia è così importante.
Permette ai sardoparlanti di uscire dall’isolamento.
Ma ancora più importante è la presa di posizione di Vito Biolchini.
Vito sa di essere parte della classe dirigente sarda e si comporta coerentemente con la sua visione della Sardegna.
Io e Vito condividiamo la visione di quella che può essere l’unica soluzione dei nostri problemi: un rinnovamento radicale della classe dirigente della Sardegna.
Ma questo rinnovamento non può che passare attraverso la lingua–perno della cultura–e la cultura stessa.
Abbiamo bisogno di una Sardegna sarda e non più coglionizzata dalla cultura di un paese che è lo zimbello d’Europa, come Berlusconi resuscitato ci ha ricordato.
Ecco perché suonano velleitari, patetici e anche ridicoli gli appelli dei vari gruppi indipendentisti che si limitano a proporre se stessi come nuova classe dirigente.
Si, insomma, “Vota Antonio La Trippa”.
Manca qualsiasi visione del come arrivare a quell’indipendenza culturale e psicologica della maggioranza dei Sardi, cioè dell’unica cosa che possa portare i Sardi a scegliere democraticamente per l’indipendenza politica.
“Vota per me che sono meglio di lui!”
“No, vota per me che lui è un coglione!”
“Il mio partito è così indipendentista che più indipendentista non si può: ho perfino cambiato la bandiera! La mia è la bandiera sarda più sarda che c’è”.
E si sbudellano e si dividono e si sputtanano.
Perché credono che l’indipendenza della Sardegna coincida con la loro elezione da parte del 51% dei Sardi.
Come arrivare a quella percentuale fatidica non lo spiegano e forse non se lo chiedono neppure.
E alle elezioni i voti li prendono i partiti italiani.
Chissà perché?
La non dipendenza politica della Sardegna arriverà soltanto quando la maggioranza dei Sardi sarà indipendente culturalmente–e quindi psicologicamente–dall’Italia e dagli Italiani, brava gente.
Soltanto l’indipendenza culturale può portare all’indipendenza economica e quindi politica.
Il dibattito che si sta svolgendo sul blog di Biolchini è uno spaccato di quello che sta succedendo nelle menti e nei cuori di tanti Sardi.
La scoperta della propria identità che, inesorabilmente, passa per la lingua, e non per un vago sogno di indipendenza che mi ricorda tanto il “Sol dell’avvenire” della mia gioventù e che non è mai avvenuto.
L’identità, come spiego nel mio libro, che sarà pubblicato l’anno prossimo, è determinata da quello che fai: se parli in italiano, la tua identità linguistica è italiana: italiana di serie B, “sardignola”, se parli l’Italiano Regionale di Sardegna.
“Le studiose americane Mary Bucholtz & Kira Hall (2005 7: 585-614) propongono una definizione di identità che ribalta, per molti versi, la concezione tradizionale espressa dal senso comune: «Proponiamo un quadro teorico per l’analisi dell’identità come prodotta nel corso dell’interazione linguistica sulla base dei principi seguenti: (1) L’identità è il prodotto piuttosto che la fonte di pratiche linguistiche o altre pratiche semiotiche ed è perciò un fenomeno sociale e culturale, piuttosto che principalmente interno e psicologico; (2) le identità circondano categorie demografiche di macro-livelli, prese di posizione temporanee interattivamente specifiche e ruoli di partecipazione; (3) le identità possono essere indicizzate linguisticamente attraverso etichette, implicazioni, prese di posizione, stili, o strutture e sistemi linguistici; (4) le identità sono relazionali, costruite attraverso numerosi, spesso sovrapposti, aspetti del rapporto tra se stessi e gli altri, compresi la similitudine/differenza, genuinità/artificialità e autorità/delegittimazione; e (5) l’identità può essere parzialmente intenzionale, in parte abituale e meno che pienamente conscia, in parte un risultato di una negoziazione interattiva, in parte un costrutto delle percezioni e rappresentazioni altrui e in parte il risultato di processi e strutture ideologici più vasti.»”
Si può essere Sardi e Italiani?
Si, se si parla sardo e italiano, ma non lo si è se si parla soltanto IRS.
In tal caso si è “sardignoli”, con buona pace degli indipendentisti all’amatriciana.
Possibile che non si rendano conto che se parlano di indipendenza in italiano, la gente non li prende sul serio?
E perché dovrebbe?
Il loro agire in italiano fornisce loro un’identità italiana.
Ci vuole molto a capirlo?