Archive for November, 2011

November 30, 2011

Non ce l’hanno fatta con Gheddafi e allora ci riprovano con Napolitano

La banda dello ziminu non perdona e non si arrende: Gazzu dimo’!

La fregola da Laurea Honoris Causa proprio non gli vuol passare.

Fortress Europe: Sassari ritira la laurea a Gheddafi. Ma l’Ue continua a corteggiarlo

Dopo aver fallito con Muhammar Gheddafi–tra l’altro ormai poco disponibile a farsi leccare il culo dai Sassaresi–è la volta di Giorgio Napolitano.

I Sassaresi sono riusciti conferirla a lui!

www.sassarinotizie.com

Auguri, Presidente Napolitano, quanto si sentirà onorato di ricevere quell’omaggio che i suoi connazionali di Sardegna volevano offrire a Gheddafi!

Sa come sono questi Italiani di Sassari: pensano in grande, ma quando occorre sanno anche accontentarsi.

November 30, 2011

Per una volta d’accordo con Eco

Umberto Eco soffre di intelligenza selettiva.

Questa volta ha scritto un articolo molto intelligente sull’importanza della cultura come base per la scienza,

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-classico-la-scelta-migliore/2167159

Come non essere d’accordo?

Naturalmente il suo ragionamento si applica anche e perfettamente alla conoscenza del sardo.

Se vuoi significare qualcosa  per l’economia sarda, devi essere pieno di cultura sarda, a cominciare dalla lingua.

Lavorare per la Sardegna è possibile solo se pensi in sardo.

November 29, 2011

A chi serve Pepe Corongiu?

Il Dott. Giuseppe Corongiu serve principalmente a Pepe Corongiu, poi a sua moglie e suo figlio (allevato in sardo e in italiano) e poi serve anche a noi.

Ma a noi a cosa demonio ci serve?

A una cosa sola e semplice: a fare in modo che i pochi soldi destinati al sardo nel bilancio dell’Assessorato alla P.I. , Sport e Cultura della R.A.S. vengano effettivamente spesi per il sardo.

Cosa succedeva prima che Pepe Corongiu diventasse il direttore dell’Ufficio per la lingua sarda?

Succedeva per esempio che l’università di Sassari si cuccasse più di 3 milioni e mezzo di euro in 3 anni per organizzare corsi di “Storia delle religioni in Sardegna”,  “Storia della filosofia morale in Sardegna”, “Lingua catalana”,  “Ecologia vegetale della Sardegna”,  “Ecologia e zootecnica della Sardegna”,  “Flora medicinale regionale”.

Tutte queste amenità sassaresi–rigorosamente in italiano–venivano allegramente finanziate con i fondi della legge 26/97 sotto la voce “Cultura sarda”.

Una truffa bella e buona e mi chiedo cosa debba fare ancora per farmi denunciare da questi “galantuomini”!

Succedeva che l’Università di Cagliari–molto più onestamente, e vero, ma il risultato non cambia–lasciasse inutilizzati–bloccati, sequestrati–la metà dei fondi a disposizione, i quali, quindi, non  potevano essere usati per altri scopi. Rileggetevi l’articolo qui sotto:

Tragicommedia di Ferragosto. Come e perché le università sarde spendono (o buttano) i soldi destinati alla lingua sarda

Succedeva che la R.A.S. delegasse la sua politica linguistica a istituzioni “al di sopra di ogni sospetto”.

Succedeva che i fondi destinati alla lingua e cultura della Sardegna venissero sperperati per finanziare proposte di imbalsamazione della cultura sarda vista sempre come un retaggio del passato.

Oggi non è più così: vi siete resi conto che gli articoli sul sardo, sulla stampa, non vengono più accompagnati dall’immancabile foto di un asinello, di una tziedda e del pane della feste dei bei tempi andati?

La lingua e la cultura sarda come folklorismo appartengono ormai a quella parte del nostro passato che è meglio dimenticare.

Con Corongiu, che svolgeva il suo lavoro di verifica, la R.A.S. ha cominciato ad acquisire il controllo sulla propria politica linguistica.

Sono finiti i giochi facili dei media e delle varie accademie, tutti interessati a spacciarci il messaggio del sardo come retaggio di un tempo andato.

Ecco perché il Dott. Corongiu da fastidio.

Non l’ha fatto da solo, ma ha comunque costretto diverse istituzioni a rendere conto ai Sardi della loro politica linguistica.

Come? Rifiutandosi di approvare lo sperpero dei pochi soldi a disposizione, tramite finanziamenti illeciti a iniziative non mirate alla rivitalizzazione del sardo.

Insomma, facendo applicare le leggi e i regolamenti della R.A.S.

Ecco perché l’obiettivo di varie istituzioni e individui, oggi, è quello di far fuori–estromettendolo dalla sua funzione–il Dott. Giuseppe Corongiu.

L’obiettivo è quello di tornare ai bei tempi in cui la non-politica linguistica della Regione Sardegna era dettata da soggetti estranei ai processi democratici e che non devono mai rendere conto ai Sardi del loro operato, visto che la loro legittimazione viene da oltre Tirreno.

Prendersi indebitamente i pochi soldi destinati alla nostra lingua: ecco il loro obiettivo.

 

November 28, 2011

La piramide senza base di Renato Soru

L’ho già detto molte volte:

un’economia senza tecnologia è inconcepibile;

una tecnologia senza scienza è inconcepibile;

una scienza senza cultura è inconcepibile;

una cultura senza lingua è inconcepibile.

Insomma, senza una cultura sarda basata sulla lingua sarda non può esistere alcuna economia sarda.

Esagerato?

Guardatevi attorno: dov’è l’economia sarda basata sull’italiano?

Renato Soru sembra aver capito che dall’Italia non ci si può più aspettare molto: “La Sardegna «che deve bastare a se stessa», nell’impostazione politica di Renato Soru è quella che «saremo capaci di costruire, sapendo che siamo più soli del passato». …Il passo avanti si fa con un piano che punti sull’agroalimentare e il turismo.”

Quello che Soru, almeno da queste righe, sembra non capire è che l’economia avanzata e “che basta a se stessa” è quella basata sulla conoscenza.

Faccio per l’ennesima volta l’esempio dell’Olanda, ma ci aggiungo anche la Finlandia.

Paesi piccoli che parlano lingue piccole…ma anche tante altre lingue.

Di quale conoscenza hanno bisogno i Sardi per “decollare”: innanzi tutto conoscenza del mondo che immediatamente li circonda.

Su mundu de is sardos est unu mundu sardu, inghiriadu dae unu mundu italianu, inghiriadu dae unu mundu europeu, inghiriadu dae su mundu de totu su mundu.

Renatu Soru est omine abbile, ma custu ancora non dd’at cumpresu bene.

E non at cumpresu ca non bastat a nosi mostrare bisos bellos pro su benidore: tocat puru a faer bier ca ischit comente bi podimus arribbare a cussu benidore.

Sinuncas abarrant totu tzarras.

November 28, 2011

O Renato, come fare?

Mi è arrivata la news di Sardegna democratica, con il seguente articolo:

Soru: «L’isola deve bastare a se stessa» – rassegna stampa – Sardegna Democratica

Renato Soru propone una rivoluzione culturale, un cambiamento radicale di mentalità, ma non dice come vuole arrivarci.

Forse non lo sa neanche lui.

Allora non è una coincidenza che nel resoconto del suo intervento non si trovi una parola–UNA SOLA!–sul sardo.

Con quale cultura sarda si vuole arrivare a una Sardegna che basti a se stessa?

Chissà.

Forse è meglio chiedere a Salvatore Zedda di Ortacesus, eh?

November 26, 2011

All’assessorato leggono l’Espresso

Leghide-bosi cust’articulu de Fratziscu Casula. S’Assessore Milia ponet mente a s’Espresso.

PRO SA LIMBA SARDA:NUDDA! LO 0,40% DEL BILANCIO DELL’ASSESSORATO REGIONALE ALLA CULTURA!

November 25, 2011

Lingua e malaffare

Non so se vi siete mai chiesti come mai l’Italia è un paese così corrotto, un paese largamente in mano alla criminalita organizzata, un paese in cui il voto di scambio è la regola. Infatti, per poter recuperare un po’ di credibilità in ambito internazionale, adesso l’Italia è governata da un manipolo di cosiddetti “tecnocrati”: in pratica un gruppo di persone che ha come caratteristica comune quella di non essere stata eletta da nessuno.

Inutile nascorsi che il governo Monti è stato incaricato da un comitato d’affari internazionale per escludere dalla stanza dei bottoni il degno rappresentante degli Italiani.

Insomma, all’estero l’Italia la prendono sul serio soltanto quando a guidarla non c’è gente scelta dagli Italiani stessi.

Del resto, come dare torto a questi forestieri? Il presidente del consiglio più longevo e che mai abbia goduto di maggioranze così schiaccianti è stato proprio l’ultimo premier–più o meno–eletto dagli Italiani.

L’Italia è il più corrotto degli stati ricchi del mondo.

Si veda questa denuncia di alcuni anni fa. Non mi sono affaticato a cercare qualcosa di più attuale, tanto per quello basta consultare i giornali: adesso è il turno dello scandalo Finmeccanica.

www.ilsole24ore.com

Vi siete mai chiesti come mai l’italia faccia talmente schifo?

No? Mettetevi pure in terapia.

L’Italia fa schifo. Forse non agli Italiani stessi–appunto lì sta il problema!– ma senz’altro ai mercati internazionali, che pure sono abituati a gentaglia di tutti i tipi.

I mercati internazionali: gente che agli Italiani non voglioni prestare i loro soldi. Dategli torto!

E l’Italia ha passato i limiti anche per questi signori che di figli di puttana se ne intendono.

Come mai gli Italiani–generalizzando in modo esagerato, ma comprensibile–sono così disposti al malaffare?

Arrabbiatevi pure, ma chi c’era fino a ieri a rappresentarvi e a governarvi?

E se tutto dipendesse dal fatto che, da sempre, le classi dirigenti in Italia vengono selezionate sulla base della loro conoscenza dell’italiano e non sulla base delle loro capacità reali?

Leggetevi il seguente articolo di Tullio de Mauro sulla storia dell’ italiano, e poi ne riparliamo.

De Mauro, da cui si può dissentire su parecchie cose–per esempio il fatto che definisce “dialetti” le lingue minoritarie–non ha l’abitudine di contar balle.

Diversamente da Eco.

Da quest’articolo si puo facilmente capire quante tragedie–personali e sociali–abbia causato l’italianizzazione linguistica dell’entità geografica denominata Italiaa. Io penso che anche il conformismo, il trasformismo e l’amoralità degli Italiani nascano dal tradimento che gli Italiani che ce l’hanno fatto hanno effettuato nei confronti della loro identità e della loro comunità linguistiche.

Tradire per emergere. Mentire per emergere. Nascondersi per emergere. Apparire per nascondere quello che si è realmente.

Qualcuno riconosce qualcosa?

Tullio De Mauro
L’Italia linguistica dall’Unità all’età della Repubblica
“Nell’Italia preunitaria, scrittori, politici, patrioti, da Foscolo a Cattaneo e Manzoni, additarono la giustificazione storica dell’unità e indipendenza dell’Italia nell’esistenza di un’unica lingua nazionale. Ma nel dichiarare speranze e pensieri non mancarono di sottolineare le difficoltà dovute all’uso allora assai ridotto della lingua.
La scelta del fiorentino scritto trecentesco a lingua che, sostituendo il latino, fosse lingua comune e specificamente propria dell’Italia si andò affermando già nel secondo Quattrocento nelle nascenti amministrazioni pubbliche dei diversi stati in cui il Paese era diviso e si consolidò poi tra i letterati nel XVI secolo quando sempre più spesso la lingua di Dante, Petrarca, Boccaccio cominciò a dirsi italiano e non più fiorentino o toscano. Ma fuori della Toscana, e con la sola parziale eccezione della città di Roma, quella scelta restò limitata a esigui ceti colti. Mancarono ancora per secoli quelle condizioni di unificazione politica, economica e sociale e di sviluppo della scolarità elementare che altrove in Europa portavano i popoli a convergere verso l’uso effettivo delle rispettive lingue nazionali. Firenze e Roma a parte, l’uso dell’italiano restò riservato a occasioni più formali e solenni e alle scritture di quell’esigua parte di popolazione che poteva praticarle e leggerle. Negli anni dell’unificazione abbiamo troppe testimonianze illustri, da Cavour a Francesco De Sanctis e Manzoni, per dubitare delle stime che fanno ascendere al 2,5% la popolazione (inclusi i toscani e i romani alfabetizzati) in grado di usare attivamente l’italiano e al 6 o 7% (secondo Giacomo Devoto) o quasi 10% (secondo Arrigo Castellani) la popolazione in grado di capirlo. E la stima non sorprende: al primo censimento dell’Italia unita il 78% della popolazione risultò totalmente analfabeta, in quegli anni l’istruzione elementare, dove c’era, garantiva soltanto una sommaria alfabetizzazione e l’istruzione postelementare, che poteva portare all’uso della lingua italiana, era riservata allo 0,9% delle fasce giovani.
Le potenzialità d’uso della lingua nazionale erano state e restavano consegnate alle sorti della scuola. L’unità politica avviò processi importanti di unificazione amministrativa e militare, di nascita d’un giornalismo moderno, di partecipazione sia pure dei soli ceti abbienti alla vita politica nazionale, di
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creazione di infrastrutture viarie, di accumulo e concentrazione di capitali ed embrionale industrializzazione. Erano tutti fatti che scuotevano la tradizionale compagine dialettale del Paese. Ma la scuola non decollò: mancarono gli investimenti pubblici e una politica volta a sviluppare l’istruzione. Per quarant’anni si susseguirono inchieste dai risultati desolanti. Né queste né le denunzie di intellettuali come Antonio Labriola intaccarono l’ostilità dei gruppi dirigenti verso una possibile espansione della scolarità.
Le cose cominciarono a mutare soltanto nel decennio giolittiano. Le spese per il pagamento degli insegnanti e per l’edilizia scolastica elementare passarono finalmente dai dissestati comuni allo Stato, si triplicò la percentuale di prodotto interno destinata all’istruzione, i riflessi della grande emigrazione e della nascita di organizzazioni dei lavoratori agricoli e industriali crearono un nuovo diffuso bisogno di istruzione. Scomparve allora, dopo il 1901, la precedente totale evasione dall’obbligo scolastico. Tra gli adulti l’analfabetismo cominciò a scendere sotto il 60%. Nelle grandi città cominciarono a formarsi nuclei consistenti che usavano l’italiano nel parlare. E poté finalmente acquistare nuovo slancio quell’uso vivo della lingua, cui si appellava la proposta antipedantesca e liberatrice di Benedetto Croce.
Ma durò poco. La Grande Guerra prima, poi il ventennio fascista fermarono i processi avviatisi. La spesa pubblica per l’istruzione fu severamente decurtata e ai livelli dell’età giolittiana è potuta tornare soltanto negli anni Cinquanta. L’Italia del fascismo, che aveva cancellato dalle statistiche le domande sul leggere e sullo scrivere e aveva decretato l’assolvimento dell’obbligo scolastico elementare dopo soli tre anni, consegnò alla nascente democrazia una popolazione per il 59,2 % di adulti privi di licenza elementare, per il 13% dichiaratamente analfabeti. Risultò al censimento del 1951 che soltanto il 10% della popolazione si era spinto oltre il tetto delle elementari, conquistando una licenza media inferiore (5,9%), un diploma mediosuperiore (3,3%), una laurea (1%).
Non stupisce il dato concomitante relativo all’uso dell’italiano: lingua abituale per poco più del 10%, usato in alternativa con un dialetto da poco più del 20%, non usato e in larga parte mal capito dal 64% della popolazione consegnata invece all’uso esclusivo di uno dei dialetti. E all’analfabetismo.
Da quei primi anni della Repubblica la necessità di sviluppare la scolarità non si impose solo a intellettuali attenti e appassionati, come Piero Calamandrei, Umberto Zanotti Bianco, Guido Calogero, cui più tardi si unì don Lorenzo Milani con le analisi e la bruciante denunzia del suo Esperienze pastorali. Quella necessità fu largamente condivisa dal ceto politico, che nell’Assemblea Costituente costituzionalizzò l’obbligo scolastico e la sua gratuità per almeno otto anni (Art. 34, c. 2), e dagli stessi governi che portarono la quota di prodotto interno destinato all’istruzione ai livelli dell’età giolittiana e oltre. E fu profondamente condivisa dalla popolazione,
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specialmente giovane, che già nei tardi quaranta premette per raggiungere e varcare il tetto delle elementari e frequentare le scuole medie, così come trent’anni dopo col suo afflusso crescente ha reso difficile la vita tradizionale delle secondarie superiori e ha premuto alle porte delle università.
Ma all’impegno politico iniziale e alla richiesta crescente di più alti livelli di istruzione non ha corrisposto un tempestivo e adeguato dispiegamento di interventi strutturali e risorse. Tardò 14 anni, fino al 1962, l’istituzione della scuola media unificata conseguente all’articolo 34 della Costituzione. Ma ancora nel 1970 metà delle classi giovani non ottenevano la licenza media e passò un intero decennio prima che un riassetto di programmi e modi di insegnamento rendesse la media inferiore funzionale ai suoi compiti costituzionali. È passato poi quasi mezzo secolo per l’approvazione di una legge di riforma della secondaria che la raccordi alla media obbligatoria e pare a molti un obbiettivo irrealistico l’innalzamento dell’obbligo ai 18 anni come in altri Paesi progrediti. Tuttavia lo sforzo sostenuto dalla scuola è stato imponente: la scolarità media era nel 1951 di tre anni di scuola a testa e ciò collocava l’Italia tra i Paesi sottosviluppati del mondo; negli anni duemila è di quasi 12 anni e ciò colloca l’Italia tra i Paesi sviluppati, sia pure a bassi livelli. Ma la scuola ha lavorato da sola e in salita. Non è riuscita a portare l’intera popolazione ai livelli richiesti dalla Costituzione: il 37% è privo di licenza media. In più di tre quarti dei comuni mancano idonee biblioteche di pubblica lettura e gli stili di vita non stimolano il bisogno di informazione scritta e di lettura. Continua a mancare, nonostante i ripetuti richiami dell’OCSE, quel sistema nazionale di educazione ricorrente degli adulti che negli altri Paesi industrializzati contrasta efficacemente i rischi di dealfabetizzazione degli adulti una volta usciti dalle scuole. Di conseguenza la dealfabetizzazione colpisce pesantemente il Paese. Accurate e impietose indagini comparative internazionali sulla popolazione in età di lavoro dicono che meno del 20% ha le competenze di lettura, scrittura, calcolo considerate minime e irrinunciabili dalla media internazionale.
Pur in assenza di un’adeguata diffusione del pieno controllo di lettura e scrittura, le popolazioni italiane, e precocemente e più largamente le donne, si sono rivolte in misura crescente verso l’uso della lingua nazionale, abbandonando l’anteriore uso esclusivo dei dialetti. Il cammino è stato certamente favorito dalla scolarizzazione delle classi giovani, ma ha avuto anche il concorso di altri tre grandi fattori: (1) le intense migrazioni interne da Friuli, Veneto, valli lombarde e piemontesi e da tutto il Sud verso le grandi città in queste hanno portato popolazioni di diverso dialetto ad avvertire la necessità di una lingua comune; (2) la partecipazione attiva alla vita delle associazioni di lavoratori, sindacati e partiti, che non è stata e non è solo sindacalese o politichese e brogli, ma anche promozione culturale e sociale, cura e passione per ciò che è comune; (3) l’ascolto televisivo che, con l’aiuto 3
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potente delle immagini, in case in cui non era mai entrata una voce italiana e stenta a entrare un libro o un giornale ha portato fiumi di italiano parlato e notizie non di solo sport o volgarità, ma di scienza e arte e del mondo “vasto e terribile”.
Le indagini della Doxa, prima, poi quelle dell’Istat hanno permesso e permettono di seguire il cammino linguistico della popolazione fino agli anni più recenti. Quel dieci per cento di persone che usavano abitualmente l’italiano negli anni Cinquanta è cresciuto nel 2006 fino al 45%. Il 64% che usava sempre e solo uno dei dialetti e schivava l’italiano si è ridotto di dieci volte, al 6%. Il 49% parla sia l’italiano sia anche,alternativamente, specie nella vita familiare e privata, uno dei tanti dialetti, tuttora ben vivi, o uno degli idiomi di minoranza. Piaccia o no, il «principio istorico» della secolare vita italiana, la molteplicità di grandi diverse città capitali, individuato da Sismonde de Sismondi, Carlo Cattaneo e Fernand Braudel, non è stato cancellato e anche linguisticamente l’Italia resta policentrica. L’omologazione che nel 1964 Pier Paolo Pasolini paventava non c’è stata. Tuttavia ormai, abitualmente o no, conservando o no modi regionali e il dialetto nativo, converge verso l’uso dell’italiano il 94% degli italiani, anche se solo in parte dotati dei necessari strumenti intellettuali.
Una rivoluzione di portata storica volge al compimento. Nei tre millenni di storia nota delle popolazioni che hanno abitato questo Paese che chiamiamo e chiamano Italia da duemila anni mai vi era stato un pari grado di convergenza verso una stessa lingua. Quello che Foscolo, Cattaneo, Manzoni avevano sognato, che l’italiano un giorno diventasse davvero la lingua comune degli italiani, è oggi una realtà nell’Italia della Repubblica democratica. Di qui, da questo patrimonio acquisito e dal suo rafforzamento, potremo e dovremo partire.”

November 25, 2011

Eco e le sue truppe cammellate dell’Espresso

 

I leccapenne a un tanto al chilo dell’Espresso non si vergognano di esibire la loro monumentale ignoranza:

“Partiamo dagli uffici retti fino a qualche giorno fa da Raffaele Fitto, responsabile dei “Rapporti con le Regioni e la coesione territoriale”. Il dipartimento costa 1,7 milioni di euro l’anno (tra stipendi, interpreti e indennità varie), ma oltre la metà delle sue erogazioni servono unicamente a “tutelare” le cosiddette minoranze linguistiche “storiche”. Tra interventi ad hoc e l’apposito “fondo nazionale”, nel 2010 gli italiani hanno speso per la difesa della lingua albanese, di greco, catalano, croato (tre comuni in Molise parlano, in effetti, il dialetto croato-molisano), della lingua francoprovenzale, occitana, germanica, del ladino e del friulano ben 5,6 milioni di euro. A cui vanno aggiunti, of course, altri finanziamenti regionali: anche il sardo è tutelato per legge, così lo scorso maggio a Olbia, Tempio Pausania e Santa Teresa hanno aperto sportelli “linguistici” dove si possono chiedere informazioni e documenti in isolano stretto. Il progetto prevede pure corsi di formazione per quei dipendenti comunali che conoscano, ignoranti, solo l’italiano. Non è tutto. Nel bilancio 2010 spunta pure il “comitato istituzionale paritetico per i problemi delle minoranze slovene” (46 mila euro l’anno) e il dimenticabile Ente italiano della Montagna.”

Il povero Fittipaldi, autore dell’articolo seguente–e nobile Toscano?–non sa neppure che è la legge 482/99, approvata quando la D’Alema era presidente del consiglio, a garantire la magrissima tutela delle 11 lingue minoritarie che la legge riconosce.

Naturalmente non si chiede neppure quanto costi ai sardi e alle altre minoranza l’insegnamento della loro lingua, diventata famosa in tutto il mondo grazie al bunga bunga.

Italiani? Brava gente!

Italiani, se state cercando di farvi odiare, beh, ci state arrivando sempre più vicini!

Ma i giacobini non si preoccupano di contraddirsi

Ministri a tutto spreco

November 25, 2011

Perché Eco è scemo.

Mi sono arrivate delle richieste di chiarimenti. Mah…

Eco è scemo perché tutta la sua leccata al deretano di Napolitano è basata sull’assunto palesemente falso che sia normale e desiderabile essere monolingui.

Dunque, secondo il suo discorso, è  meglio essere monolingui in italiano che esserlo in sardo o, mettiamo, norvegese.

Infatti, il premio Nobel per la pace lo attribuiscono i Norvegesi (4 milioni e mezzo) e gli altri li attribuiscono gli Svedesi (circa 8 milioni).

Gli Italiani, invece, sono famosi nel mondo per il premio Bunga Bunga.

Come si vede essere parlanti di una lingua “piccola”, ma non negata dallo stato–cioè dotata di scuole, esercito e flotta, non comporta il provincialismo ignorante che caratterizza gli Italiani e di cui Eco è un degno rappresentante.

Basta essere plurilingui e non monolingui isterici come Eco e Napolitano.

I Norvegesi e gli Svedesi sono plurilingui.

Solo gli scemi vogliono essere monolingui e gli Italiani riescono benissimo ad esserlo.

Pensate poi a quello che gli Irlandesi–praticamente monolingui in Inglese, la lingua dei loro colonizzatori passati–significano per la cultura internazionale e a quanto la cultura internazionale significhi per loro. Niente, a parte la loro musica. L’aver abbandonato la propria lingua non ha portato loro  alcun vantaggio. Erano il paese più arretrato dell’Europa occidentale e–dopo aver avuto uno sprazzo di opulenza con la bolla finanziaria–si avviano a immergersi nuovamente nella loro atavica miseria monolingue. Ah già, ma monolingui in una “grande lingua”!

Perché Eco è scemo e non semplicemente un servo del regime giacobino?

Perché pensa che qualcuno, oltre a i suoi ammiratori ignoranti, possa anche credere alle sue spudorate menzogne.

C’è qualcuno che pensa davvero che Eco sia monolingue in italiano?

November 24, 2011

Umberto Eco non è un intellettuale di regime. È proprio scemo!

In occasione delle celebrazioni del regime italiota–a governo berlusconiano–del 150 anniversario della mutazione spontanea della denominazione del loro stato da quella di “Regno di Sardegna” a quella di “Regno di Taglia” (La lingua italiana fattore portante dell’identità nazionale www.quirinale.it), Umberto Eco ha scritto la seguente sequenza di coglionate:

Umberto Eco
L’italiano di domani
Il 17 marzo 1861 Camillo Benso conte di Cavour scriveva a Massimo d’Azeglio esultando per la raggiunta unità, e la sua lettera diceva: «Dès ce jour, l’Italie affirme hautement en face du monde sa propre existence». Così diceva. In buon francese.
Vorrei partire da questa situazione paradossale per chiedermi che cosa sia stato l’italiano e ieri e che cosa potrebbe diventare domani, anche se non possiamo sapere come sarà l’italiano di domani perché nei fatti di lingua si può prevedere solo ciò che è già avvenuto. Le lingue sono strani organismi che obbediscono a leggi proprie indipendenti dalla volontà di chi le parla.
Quali sono e sono stati rapporti tra l’Italia e la sua lingua, e tra la lingua italiana quale oggi è parlata e l’idea dell’unità nazionale? Perché è inutile ignorare che – se oggi ci si trova di fronte, da molte parti, al rifiuto di celebrare il 17 marzo o perlomeno a forme di disinteresse nei confronti di questo sesquicentenario dell’Unità, al punto di giudicare l’idea ottocentesca di unità nazionale come totalmente estranea alle masse popolari.
Le lingue evolvono – È cosa risaputa, che se date a un francese da leggere un testo di Rabelais, che era più o meno contemporaneo del nostro Ariosto, il francese fa una certa fatica a capirlo e si perde se è persona di scarsa o nulla cultura letteraria. Mentre se date da leggere a un italiano, anche se ha fatto solo le elementari, «Le dame i cavalier l’arme gli amori / Le cortesie le audaci imprese io canto», costui capirà benissimo che cosa gli viene detto. Parimenti un inglese non riesce praticamente a leggere i Canterbury Tales di Chaucer, tanto che per il lettore comune circolano versioni in inglese moderno, mentre un italiano (e persino l’extracomunitario che vende caldarroste all’angolo della strada) capiscono benissimo che cosa vuole dire «Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / ché la diritta via era smarrita». Eppure Dante scriveva questi versi più di sessant’anni prima di Chaucer.
Dobbiamo dunque dirci fortunati perché i nostri ragazzi a scuola hanno fatto e fanno meno fatica a comprendere i grandi scrittori del passato? Il guaio è che francesi o inglesi non capiscono la loro lingua di molti secoli fa perché – parlata per secoli da mercanti, guerrieri e popolani – questa lingua sia è via via trasformata, mentre l’italiano da Dante ai giorni nostri è stato parlato eminentemente da scrittori che si passavano per così dire la fiaccola di una lingua originaria senza ardire trasformarla più di tanto. Crederebbe uno straniero (o un ragazzo della prima 1
media) che tra «Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di province, ma bordello!» e «O patria mia, vedo le mura e gli archi / E le colonne e i simulacri e l’erme / Torri degli avi nostri, / Ma la gloria non vedo» passano circa cinque secoli e mezzo? Francamente, a prima vista parrebbe più arcaico Leopardi…
L’italiano come unico segno di italianità
Ci troviamo dunque di fronte a una prima contraddizione: Da un lato l’unico elemento costante di italianità, nel corso di più di un millennio, nell’assenza di una unità statale e di un patrimonio di valori che fosse più forte delle varie identità regionali, è stata la lingua. L’Italia, potremmo dire, esiste solo dai tempi di «Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti». Prima di questo primo documento della lingua italiana l’Italia era solo, come avrebbe detto Metternich, una pura espressione geografica.
I dialetti
Ma d’altro lato l’italiano, non esistendo un popolo che lo parlasse, è rimasto segno di unità e identità solo per i pochi che sapevano leggere e scrivere. Cavour scriveva in francese a d’Azeglio e quando Vittorio Emanuele II si irrita con lui gli dice, in torinese, «chiel, chiel l’è ’n birichin!’».
D’altra parte quando negli anni Settanta con Tullio De Mauro si è fatto un programma televisivo sulla lingua degli italiani, il nostro regista, Piero Nelli, ha messo in scena la vicenda dei due plotoni italiani, uno di lombardi e l’altro di siciliani, che – nel corso della Prima guerra mondiale – incontrandosi per opposti camminamenti, stavano per spararsi addosso perché ciascun gruppo credeva che l’altro parlasse tedesco.
Lingua e identità nazionale
Ma davvero la lingua può essere causa di identità nazionale? Sappiamo che esistono lingue che permettono diverse forme di identità nazionale, come il francese di Francia, della Vallonia e della Svizzera, o il tedesco degli svizzeri, dei tedeschi e degli austriaci. Dunque l’italiano potrebbe diventare benissimo la lingua franca di due o tre Italie separate. Eppure, ed ecco un altro paradosso, gli unici che ritengono l’italiano come la base stessa di un senso di identità nazionale sono proprio coloro a cui l’idea di una Italia postrisorgimentale dà noia. E infatti che altro non sono le tentazioni striscianti di tornare al dialetto negli atti pubblici, nelle targhe stradali, nell’insegnamento scolastico, se non la volontà di minare il potere di quella lingua che appare evidentemente come la garanzia di permanenza del senso di identità nazionale?
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Basic Italian
L’Italia era disunita quando la maggioranza degli italiani parlava solo il proprio dialetto. Il primo fenomeno di italianizzazione delle masse ineducate avviene con la leva militare e la Grande guerra; il secondo con la migrazione interna. Ma la migrazione interna è facilitata a metà secolo scorso dalla televisione. Può essere una battuta dire che, senza volerlo, Mike Bongiorno ha fatto per l’unità d’Italia più che Giuseppe Mazzini, ma certamente, prendendolo a simbolo e sintomo della diffusione televisiva, ecco che ogni italiano acquista un basic Italian, sia pure povero di congiuntivi e timido nelle subordinate.
La vittoria del basic Italian sconfigge i dialetti: via via certe città del nord ospitano ben presto percentuali altissime di meridionali, costoro parlano ormai il basic Italian e il basic Italian debbono parlare con loro i locali: ed ecco che i dialetti perdono forza, e non sono più parlati dai giovani. Nella mia città, Alessandria, tutti gli anni a Natale si rappresenta il Gelindo, commedia sacro-profana dove si immagina una terra che è per metà terrasanta e per metà l’alessandrino, con Betlemme che sorge poco lontano dal Tanaro, e tutti i pastori parlano il vecchio dialetto locale, con effetti comici travolgenti specie quando, senza pudore (ma con l’approvazione divertita del vescovo) trattano in dialetto e i fatti della storia sacra e i problemi cristologici, mescolandoli a osservazioni sulla realtà attuale (tanto per capirci, nell’ultima edizione già si diceva che nella reggia di Erode avvenivano strani festini con la nipote del faraone d’Egitto). Ma il problema del Gelindo è che da un lato diminuisce il pubblico capace di capirlo, e dall’altro diventa sempre più difficile reclutare nuovi attori che parlino il dialetto con disinvoltura. La scomparsa di questa tradizione folkloristica sarebbe gravissima e lo sanno i linguisti che, dopo essersi battuti perché l’italiano l’avesse vinta sui dialetti, ora auspicano che i dialetti siano in qualche modo ricuperati come seconda lingua degli affetti e dell’identità ancestrale.
Italiano “alto” e figli analfabeti
Se il basic Italian di Mike Bongiorno si era imposto quando esisteva un solo canale televisivo, nel corso di un cinquantennio le sollecitazioni linguistiche si sono moltiplicate. Avete mai chiacchierato oggi con un tassista? L’italiano di un tassista è ormai lessicalmente e sintatticamente all’altezza di quello che negli anni Venti o Trenta era l’italiano di un laureato. E non solo il tassista parla un italiano abbastanza fluente e colto. E naturalmente prendo il tassista come campione di molte altre categorie. Stiamo dunque assestandoci su un italiano “alto”? No, perché si profila ora un altro fenomeno: una volta i padri parlavano ancora e solo dialetto mentre i figli che andavano a scuola introducevano in famiglia l’italiano; oggi i padri, come abbiamo visto, parlano un italiano passabile, quasi colto, ma i figli smarriscono il controllo della loro lingua.
Che questo ormai accada lo si sente non solo nelle scuole elementari o medie ma persino all’università, dove accade sempre più di incontrare matricole che 3
ignorano il significato dei termini più elementari, segno che non li hanno mai usati, né letti. Recentemente agli esami del triennio, a Bologna, un esaminando scriveva che negli anni ’50, nelle famiglie più abbiette, il matrimonio non era più combinato ma era una scelta di emancipazione femminile, e richiesto di precisare mostrava di non conoscere la differenza tra abbiente e abbietto.
Il fenomeno è paradossale, perché questa è la prima generazione cresciuta con e su Internet e Internet ha rappresentato il ritorno da una cultura esclusivamente visiva a una cultura di nuovo alfabetica. Potrebbe darsi che Internet non venga usato per consultare Wikipedia ma per cercare immagini o per inviare brevi messaggi su Facebook. Può darsi che la consultazione di Internet abbia distolto le giovani generazioni non solo dalla televisione (dove al postutto Vespa o Berlusconi, Bersani o Fazio) ma anche dalla lettura dei giornali.
Da tempo si è deprecato che l’uso degli sms stia abituando i ragazzi a un sotto-italiano essenziale. Certamente questo impone ai più deboli una visione ridotta della scrittura, per cui a un altro esame universitario un ragazzo ha parlato di Nino Biperio perché leggendo Bixio aveva inteso la ‘x’ come normale abbreviazione in luogo di ‘per’.
Forse in futuro, iniziando da Facebook e poi passando all’uso di vari siti per copiare i risultati qualche ricerca, a poco a poco una percentuale ragionevole di giovanissimi inizierà a leggere quello che su Internet, vero o falso che sia, è scritto. Ma quanti saranno capaci di distinguere la buona lingua di certi siti dall’italiano coatto di certi blogger? A che cosa sarà più simile allora l’italiano medio di domani? A quello dei proletari ormai acculturati, o a quello degli studenti ormai decerebrati?
Il trionfo del dialetto?
Una sola previsione mi sentirei di fare: anche se l’unità d’Italia, come alcuni vogliono, venisse infranta, non si arriverebbe a una estinzione dell’italiano e a un trionfo dei dialetti come lingue ufficiali di regioni indipendenti. La questione della differenza tra un dialetto e una lingua è assai spinosa e qualcuno ha detto che un dialetto è solo una lingua a cui sono mancati un esercito e una marina. Quando era lingua ufficiale della Repubblica di Venezia, usato nei documenti pubblici, il veneto era a tutti gli effetti una lingua, e con una grande produzione letteraria. Ma un dialetto è anche una lingua a cui è mancata l’università – e cioè la pratica della ricerca e della discussione scientifica e filosofica, che si arricchisce ogni giorno di nuovi termini e nuovi concetti.
Non si vuol dire con questo che i dialetti possono esprimere solo il mondo popolare che per tradizione è comico e carnascialesco; certamente il dialetto sa essere deliziosamente fescennino, ma alcuni dialetti come per esempio il napoletano hanno provato di esser capaci anche di esprimere il dramma e la tragedia, si pensi a Eduardo (e persino a Malafemmena) D’altra parte il milanese non è solo quello di Bramieri o di Tino Scotti, e chi leggesse L’el dì di mort, alegher di Delio Tessa scoprirebbe una lingua tragica di durezza quasi brechtiana.
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Ma c’è un fenomeno che appare in molti dialetti, almeno a mia scienza in quelli del Nord, dove, quando qualcuno fa in dialetto una affermazione energica (per esempio “No, non si può fare una cosa così”) lo dice dapprima in dialetto ma poi per dare forza all’affermazione fa seguire la traduzione italiana (“No, us po’ nenta, NON SI PUÒ”). Questo significa che la lingua nazionale sottolinea la serietà e la decisione dell’intenzione – ma soprattutto viene in aiuto quando il dialetto si trova lessicalmente incapace di esprimere realtà tecnologiche o filosofiche di nuova acquisizione.
Ho trovato in Internet moltissime voci di Wikipedia tradotte in piemontese, siciliano o veneto e altri dialetti italiani, Ho esaminato la voce Aristotele e mi sono divertito alla sua versione piemontese: «Aristòtil a l’era nassù a Stagira (an Macedònia) e a l’é mòrt a Calcis (ant l’Eubéa). A l’ancamin dissìpol ëd Platon, Aristòtil a fonda tòst soa pròpia scòla filosòfica a Atene, ël Licéo». Noterete che nomi come Aristotele e Platone vengono dialettalizzati, ma Eubea, Calcis, Atene, Liceo mantengono la forma italiana. Così accade nei nostri dialetti dove c’è la forma dialettale per il centro vicino e per molte città italiane, ma si dice tranquillamente Londra, Berlino, Parigi. Il dialetto non ce l’ha fatta a parlare abbastanza di quelle realtà lontane, e le tratta come cosa estranea alla sua tradizione. In tal senso, quando il dialetto cercasse di tradurre un brano della Critica della ragion pura provocherebbe un effetto comico, come di un villano che volesse adottare il linguaggio dell’aristocrazia. Provate a immaginare nel vostro dialetto come tradurre da Heidegger le tre estasi della temporalità o l’essere per la morte.
Che cosa provoca nel dialetto questa incapacità, mentre sa dire assai bene, e in modo toccante, la passione amorosa, i sentimenti famigliari, l’amore per la propria terra, la luce delle stelle e il dolore per un bambino morto?
Una volta Leo Longanesi aveva provocatoriamente affermato che non si può essere un grande poeta bulgaro. A prima vista questa parrebbe una volgarità razzista oppure una banalità (nel senso che se qualcuno fosse un grande poeta bulgaro nessuno lo saprebbe perché avrebbe scritto in una lingua parlata da pochi). Io credo però che questa boutade abbia anche una interpretazione più profonda.
Una volta amici italo-americani mi hanno chiesto di dare consigli alla loro figlia, che doveva scegliersi una università. I genitori avrebbero voluto la Harvard University, mentre lei si era incaponita su un piccolo college, sperduto in New York upstate perché, diceva, a Harvard i professori sono tutti premi Nobel, vanno in giro per il mondo e non si occupano di te, mentre nel piccolo college sono molto più dedicated e intrattengono con te un rapporto personale.
Le ho spiegato che quello che lei diceva era vero, ma che il suo professore premio Nobel, quando avesse fatto lezione, le avrebbe detto cose che il giovane professore del piccolo college non le avrebbe mai detto, avrebbe sempre invitato per conferenze e seminari colleghi da tutto il mondo, che lei ogni sera avrebbe potuto scegliere tra vari eventi musicali, teatrali, letterari, che l’edicola di Harvard Square contiene tutti, dico tutti i quotidiani di tutti i Paesi. Insomma da Harvard sarebbe
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passato il gran vento del mondo mentre upstate ci sarebbe stata una dignitosa bonaccia. La metafora del gran vento del mondo l’ha convinta.
Ora, immaginiamo un piccolo Paese dalla lingua impervia e dalla scrittura diversa da quella di tutti gli altri popoli, che avesse subìto secoli di dominazione straniera, che per secoli non fosse stato mai visitato da altre genti e i cui abitanti non fossero mai andati a conoscere altri Paesi. Ecco un Paese tagliato fuori del gran vento del mondo. Non so se questo poteva impedire che tra questa gente nascesse un grande poeta, ma certamente l’universo di questo poeta sarebbe stato più circoscritto di quello di Shakespeare o di Goethe.
Un dialetto si trova, rispetto ai grandi temi della scienza e della cultura in genere, nella situazione di un universo chiuso, che non è mai stato stimolato a parlare di Hegel o del principio di indeterminazione. Per questo al dialetto si ritorna, e con amore, per ritrovare il sapore e il tepore di una infanzia perduta e le nostre radici, non per elaborare su quella base una carta dei diritti dell’uomo o un trattato di informatica.
Pertanto il dialetto va ritrovato attraverso un ricupero del folklore locale, ma non può essere insegnato a scuola, salvo scoprire che il suo lessico, che saprebbe dipingere a perfezione la minima sfumatura intermedia tra la nebbia e la brina, non è stato allenato a parlare dei monocotiledoni.
Se è così, la regressione al dialetto diminuirebbe la possibilità di contatti con il resto del mondo. Proprio nel momento in cui si parla dell’apprendimento di altre lingue per poter interagire col mondo, il ritorno al dialetto come lingua ufficiale ci impedirebbe persino di parlare con gli abitanti di una regione vicina, dato che le differenze dialettali variano addirittura da chilometro a chilometro. Ed ecco come l’unico strumento di contatto per gli abitanti di una Italia divisa sarebbe l’italiano nazionale, che da lingua utile per l’unità (ma abbiamo visto che per l’unità Cavour poteva benissimo farne a meno) diventerebbe lingua indispensabile per la disunione.