Una delle cose più sorprendenti della fauna accademica italiana in Sardegna è la mancanza totale di curiosità scientifica di molti dei suoi membri.
Le cause di questo fenomeno sono molteplici e quest’analisi di Omar Onnis offre delle spiegazioni in gran parte condivisibili: http://sardegnamondo.blog.tiscali.it/2013/11/27/poverta-culturale-peggio-delle-privazioni-materiali/
Onnis dice: “La linguistica è militarmente presidiata dalla glottologia ottocentesca, con una netta prevalenza del conservatorismo più oscurantista, per giunta ossessivamente italocentrico e italianocentrico.”
La conseguenza principale di questa situazione è il fatto che i linguisti delle università italiane di Sardegna si limitano a riprodurre le “conoscenze” esistenti, resistendo eroicamente a qualsiasi dubbio e a qualsiasi curiosità sulla fondatezza di queste “conoscenze”
Come esempio vedete questo passaggio tratto dal mio libro in corso di pubblicazione:
“Il naturalista Francesco Cetti, sbarcato in Sardegna nel 1765, con lo scopo di studiare la fauna dell’isola, definisce la situazione nel modo seguente: «Si divide pure questo continente in parte meridionale, e in parte settentrionale con altri nomi, chiamando la parte meridionale Capo di sotto, e la settentrionale Capo di sopra. L’appellazione è fondata sulla verità: andando da mezzodì a tramontana si va sempre montando, dove più dove men sensibilmente, laonde la parte settentrionale viene realmente a essere più elevata dell’altra; inoltre nella parte meridionale si trova la massima pianura dell’isola, perciò la parte settentrionale fa vista di più montuosa ed ardua e la meridionale di più piana ed umile. Ma i confini di questi due Capi di sopra e di sotto non sono bene definiti; fra Bonarcado e Santu Lussurgiu comincia per tutti il Capo di sopra, perché ivi l’elevazione è in realtà più sensibile, ma poi procedendo verso levante la linea di divisione si smarrisce; uguale montuosità si trova a destra, e a sinistra, cessa il fondamento della divisione, e la divisione non è più che arbitraria, e incerta, onde in luogo medesimo si trova chi si ascrive al Capo di sopra, e chi a quel di sotto. Il più naturale sarebbe tirare in avanti la linea incominciata sopra Bonarcado, facendola passare per Fonni, dividendo così tutto il regno in due parti uguali, e la metà meridionale sarebbe il Capo di sotto, per essere nella massima parte più umile e più bassa della metà settentrionale, che sarebbe il Capo di sopra. In alcuna cosa si distinguerebbe però allora tuttavia il Capo di Sotto dal Capo di Cagliari; la molteplicità delle divisioni non può produrre se non confusione, però meglio sarebbe avere per ora per una stessa cosa Capo di Cagliari, e Capo di sotto, come molti fanno, e come intenderò io pure innanzi.» (Cetti, 2000:63-64)
Come si può vedere, Cetti ha il problema “pratico” (amministrativo?) di dividere la Sardegna in due parti uguali, basandosi, per esempio, sull’orografia. Ben conscio del fatto che una tale suddivisione è arbitraria, decide comunque di effettuarla.
Alla cartina seguente (Cartina 6.1) è stata aggiunta la linea ideale che il Cetti voleva tracciare sulla base dell’orografia della Sardegna. La linea passa leggermente a nord di Fonni.
Come si vede, l’idealizzazione proposta dal Cetti non trova riscontro nella realtà: il Capo di sotto, come da lui proposto, contiene sì la pianura principale, ma anche quasi per intero il massiccio del Gennargentu (il più elevato della Sardegna), oltre ad altri tre complessi di montagne con diverse cime che superano i 1000 metri di altitudine. Quanto alle zone pianeggianti, oltre al Campidano, poi, si trovano soltanto la piana del Cixerri e la parte pianeggiante del Sulcis.
A questo punto, e in modo ancora più sommario, Cetti decide anche di suddividere la lingua nazionale della Sardegna[1] in due varietà che, a questo punto necessariamente, devono corrispondere alla suddivisione dell’isola in due capi: «Nella lingua propriamente sarda il fondo principale è italiano; vi si mischia il latino nelle desinenze, e nelle voci; vi è pure una forte dose di castigliano, un sentor di greco, un miscolin di franzese, altrettanto di tedesco, e finalmente voci non riferibili ad altro linguaggio, che io sappia. Voci prettamente latine sono Deus, tempus, est, homine, ecc.; latine sono le desinenze in at, et, it, us, nella coniugazione dei verbi; dicono meritat, devet, consistit, dimandamus. Parole castigliane sono preguntare, callare, querrer ecc.; e castigliane sono le deninenze in os, peccados, santos, ecc. Le terminazioni in es, dolores, peccadores, ecc. rimane libero ad ognuno avere per latine, o per castigliane. Il sapor di greco lo pretendono alcuni sentire negli articoli su, sos, is; e dicendo berbegue per pecora, non pare questo un poco del brebis franzese? E dicendo si sezer per sedersi, non ha questo l’odore del sich sezen tedesco? Como per adesso, petta per carne, e altri vocaboli non so che sieno analogi per altre lingue. Due dialetti principali si distinguono nella medesima lingua sarda; ciò sono il campidanese, e ‘l dialetto del Capo di sopra. Le principali differenze sono, che il campidanese ha in plurale l’articolo tanto maschile quanto femminile is e ‘l Capo di sopra dice in vece sos e sas; inoltre il campidanese termina in ai tutti i verbi che il Capo di sopra finisce in are, non senza altre differenze di parole, e di pronuntzia.» (Cetti, 2000:69-70)
Cetti, chiaramente, non era un linguista, né sarebbe potuto esserlo in quel tempo. Dopo aver tracciato una divisione geografica della Sardegna, che lui stesso ammette essere arbitraria, fornisce due caratteristiche, in base alle quali l’isola si può – visto che, per lui, si deve – dividere anche linguisticamente in due. Tutto qui.
Marinella Lőrinczi, sulla base di questo brevissimo passaggio di Cetti – naturalista, ribadiamo, non linguista – che lei oltretutto non cita letteralmente, ritiene di poter trarre le seguente conclusioni: «La percezione tradizionale dei dialetti sardi viene registrata nel Settecento dal naturalista Francesco Cetti nell’introduzione ai Quadrupedi di Sardegna» (1774, ora in Cetti 2000: 70). Il Cetti linguista è stato segnalato per la prima volta in Lőrinczi (1993). Per Cetti il complesso linguistico sardo si divide nel dialetto del Capo di Sopra (detto anche Capo di Sassari) e in quello del Capo di Sotto (o del Capo di Cagliari), cioè il campidanese in senso lato. Egli fornisce anche le principali ‘isoglosse’ in base alle quali si operano (tradizionalmente?) tali distinzioni: l’articolo determinativo plurale “is” del campidanese è indifferente ai generi, mentre i dialetti del Capo di sopra oppongono sos~sas; in secondo luogo, alla desinenza -ai dell’infinito campidanese corrisponde -are nel Capo di Sopra; a queste differenze se ne potrebbero aggiungere altre “di parole, e di pronunzia” [per altre annotazioni fatte dal Cetti “linguista” v. Lőrinczi 1993, ma soprattutto il Cetti stesso, recentemente ripubblicato].[2]
Quello che Lőrinczi tralascia di riportare è il fatto che, ai tempi di Cetti, gli abitanti stessi della zona centrale non sapevano esattamente a quale capo appartenessero: «[…] onde in luogo medesimo si trova chi si ascrive al Capo di Sopra, e chi a quel di Sotto.» Possiamo quindi, sulla base di quello che il Cetti medesimo riporta, escludere che la divisione netta della Sardegna in due capi sia qualcosa che i Sardi stessi effettuavano “tradizionalmente” almeno là dove tale distinzione poteva essere rilevante. Inoltre, non si comprende né perché le due ‘isoglosse’ menzionate dal Cetti debbano essere considerate “principali”, né da chi.
Per quanto riguarda, poi, l’incapacità dei parlanti del sardo di attribuire la loro varietà locale a questo o a quel “capo”, la stessa Lőrinczi ammette che, a distanza di due secoli e mezzo, la situazione è rimasta immutata: «È inoltre rilevante che l’argomento di tale domanda si colloca ad un livello tassonomico basso: la domanda, cioè, teneva conto del fatto che i parlanti delle varietà locali non hanno e non possono (ancora) avere una diffusa consapevolezza (colta, dotta) dell’appartenenza del sardo, se preso complessivamente, ad un livello tassonomico corrispondente a un diasistema o ad una macrolingua (il sardo, per il momento, è e va considerato una macrolingua); quanto meno tale consapevolezza risulta essere labile. Secondo quanto precisava Anna Oppo durante la nostra conversazione, persino le etichette della classi “campidanese”, “logudorese” ecc. (che sono taxa intermedi riconosciuti scientificamente come tali) erano scarsamente applicabili al livello di consapevolezza dei parlanti, i quali spesso preferivano usare glottonimi o circonlocuzioni glottonimiche relativi alla stretta arealità locale (regione storica, località). Ciò si collegava alla ridotta familiarità dei soggetti intervistati con le tematiche di politica linguistica.”( Lőrinczi, 2011:7)[3]”
Lőrinczi qui si appella all’autorità di uno zoologo del ‘700 per giustificare la suddivisione in due del sardo.
Viene immediatamente da dire: “Ecchissenefrega di quello che diceva uno zoologo nato e morto ben prima che la linguistica nascesse?”
In effetti l’appoggiarsi all'”autorita” di un Cetti pseudolinguista è sintomo della mentalità ultraconservatrice menzionata da Onnis.
Più antica è la fonte citata, maggiore è la sua autorità.
Che poi Cetti dica fesserie colossali sui rapporti del sardo con altre lingue è del tutto secondario.
Come è secondario il fatto che, molto onestamente, Cetti stesso ammetta che i gli abitanti delle zone centrali non sapevano a quale capo appartenevano.
E figuriamoci!
Tutto fa brodo…
Non si tratta infatti di stabilire se una certa teoria–la suddivisione in due della Sardegna linguistica–sia giusta o sbagliata, ma di fornire argomenti–anche i più scalcagnati–a conferma della verità ufficiale ed eterna propagata dalle “autorità”.
Chiaramente, Lőrinczi interpreta il proprio ruolo come quello di riproduttrice delle “conoscenze” esistenti e non come produttrice di nuove conoscenze.
E non solo lei.
Ecco come è potuto avvenire il miracolo della canonizzazione della linguistica storica di Santu Max: «raramente lo sviluppo delle conoscenze scientifiche su una lingua è legato in maniera così stretta alla figura di uno studioso come è accaduto per il sardo con Max Leopold Wagner» (G. PAULIS, Prefazione a M. L. WAGNER, La lingua sarda. Storia, spirito e forma, a cura di G. Paulis, Nuoro, Ilisso, 1997 (Bern, Francke, 1950), pp. 7-38, a p. 7.)
Basta ignorare o osteggiare tutto quello che è stato fatto da altri e altrove e limitarsi a cercare conferme a favore di Santu Max.
Ma questa, purtroppo per loro, non è scienza, ma religione–nella migliore delle ipotesi–o, piuttosto, rendita parassitaria.
“Fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza…”
Eja, de linna!
[1] «Le lingue che si parlano in Sardegna si possono dividere in istraniere e nazionali» (Cetti, 2000:69). Chiaramente, per
Cetti, che scrive prima della rivoluzione francese, i concetti di stato e nazione sono ancora separati.
“