Come succede a volte, in questi giorni sono apparsi alcuni articoli che parlano dello stesso argomento, anche se i vari autori non lo sanno.
Uno di questi articoli è quello di Giovanni Maria Bellu, che ho linkato e citato nel mio post di ieri (Di ritorno da Barcellona ) e L’altro è di Umberto Eco ( Ma glielo abbiamo chiesto noi ).
Entrambi gli articoli parlano di Michela Murgia, anzi, la Murgia! Ché così la chiama adesso Bellu.
Ora io sulla Murgia ho già scritto troppo e naturalmente perché sono invidioso del suo successo, è chiaro.
Infatti io penso che la Murgia sia una brava artigiana della scrittura, ma una scrittrice modesta.
Questo l’ho già messo in chiaro nel mio post del 31 ottobre 2010 (Lettera aperta a Maria Listru ): la Murgia scrive di cose che non conosce e il risultato della sua scrittura è in questi casi completamente ridicolo: pensate ai 400 quintali di grano che dovrebbero rendere i 200 metri quadri rubati dai confinanti del protagonista.
I suoi difensori si sono appellati alla libertà poetica dello scrittore, per giustificare una coglionata talmente colossale.
Ma qui interviene, appunto, Umberto Eco, che di linguistica non capisce una mazza, ma di semiotica e di letteratura un po’ ne mastica.
Eco dice: “La prosa parla di cose, e se un narratore introduce un sambuco nella sua vicenda deve sapere cosa sia e descriverlo come si deve, altrimenti poteva fare a meno di evocarlo. Nella prosa “rem tene, verba sequentur”, possiedi bene quello di cui vuoi parlare e poi troverai le parole adatte. Manzoni non avrebbe potuto aprire il suo romanzo con quello splendido incipit (che è poi un novenario) seguito da una cantabile descrizione paesaggistica, se non avesse prima guardato a lungo e le due catene non interrotte di monti, e il promontorio a destra e l’ampia costiera dall’altra parte, e il ponte che congiunge le due rive, per non dire del Resegone. In poesia accade invece tutto l’opposto, prima t’innamori delle parole, e il resto verrà da sé, “verba tene, res sequentur”.”
Semplice no? O anche Eco sarebbe invidioso della Murgia?
Così tutta la vicenda su cui ruota il romanzetto della Murgia è basata su un anacronismo madornale: la gamba del protagonista, per poter fare ricorso a l’acabbadora, deve essere lasciata per mesi a marcire sul letto di casa. Malgrado il protagonista porti i jeans, nel mondo sardignolo inventato dalla Murgia non esistono gli ospedali.
Ma senza cancrena, nessuna amputazione e nessun ricorso all’acabbadora.
E senza acabbadora, niente sardi-ammazza-cristiani–il pubblico italiano reclama il sanguinaccio a cui li ha abituati Niffoi!–e allora niente cliché-sardignoli-sanguinolenti-che-vendono-così-bene.
Così come l’acabbadora è un’invenzione italiana, lo è anche la Sardegna-sardignola messa in scena dalla Murgia.
La Murgia è un fenomeno di costume, ma di costume italiano.
Il fatto che in Italia–grande paese civile, appena uscito dal bunga-bunga, grazie alle pressioni internazionali–la Murgia abbia così tanto successo mi lascia indifferente.
No, io non riesco ad andare in brodo di giuggiole come fa Giovanni Maria Bellu.
L’Italia non mi piace, anzi, mi fa abbastanza schifo.
Non vedo, quindi, perché–fatu a sardu–dovrei essere fiero di qualcosa che piace agli Italiani.
Ma pare che la Murgia come opinionista sia anche bravina.
Io non lo so, non la seguo.
Ho visto, però, che ha smesso di dire stupidaggini sul sardo e me ne felicito con lei.
E con me stesso, ché non sempre ho voglia di prenderla per il culo.