Adriano Sofri, circa un anno e mezzo fa, amareggiato dagli attacchi personali che subiva per via dei suoi interventi etici sulla stampa, ha scritto una nota su Facebook in cui diceva, più o meno: “Cosa sarei diventato se non fossi stato condannato per la vicenda di Calabresi?”
A me la sua reazione è sembrata fuori posto—la mia opinione su Sofri è molto articolata e ve la risparmio—e ho commentato: “Cosa saresti diventato se avessi avuto un padre analfabeta e avvinazzato?”, ma dopo pochi minuti ho eleminato il mio commento, perché poteva sembrare irrispettoso per la sua condizione di prigioniero e condannato in sede definitiva e io di queste situazioni non so niente: questa è una delle poche cose che la vita mi ha risparmiato.
Scrivo questo perché mi sembra arrivato il momento di spiegare in modo serio perché ho deciso di ritirarmi dalla scena della linguistica sarda e dalla lotta per i nostri diritti linguistici.
Alcuni credono che io sia amareggiato, eppure, se ci pensate bene, non può essere così, visto che ero a un passo dalla mia rivalsa sulla vita: il 13 ottobre sarei andare dovuto Cambridge a tenere un seminario sul sardo, su invito del Cambridge Endangered Languages and Cultures Group.
Per il figlio di un minatore/contadino analfabeta e avvinazzato sarebbe stata una bella rivalsa, lampu! Soprattutto se pensate che fino ai 34 anni il mio mestiere consisteva—fra l’altro—nel raccogliere gli stronzi di cane dalle aiuole di Piazza Sella, a Iglesias.
Non occorre essere stati educati in quella feroce palestra di umorismo che era l’Iglesias della mia gioventù per capire che a Cambridge ci sarei andato a sghignazzare di tanta gente. Loro comunque li avevo avvertiti: volevo intitolare il mio seminario: “Do you wanna play ball?”
Avevano gentilmente declinato l’offerta e optato per un titolo più convenzionale.
Perché mi ritiro allora?
Perché, da sempre, io l’eroe lo faccio soltanto se ci sono proprio costretto, come sulla spiaggia di Is Arenas.
Continuare a lavorare gratis per il sardo, in cambio di almeno altrettanti insulti quante sono state le dimostrazioni di affetto e di gratitudine, stava cominciando a costarmi troppo dal punto di vista personale.
Alessandro Mongili mi ha detto una volta che, secondo lui, un giorno qualcuno scriverà la mia biografia.
Chissà se mai succederà, ma io voglio anticiparvi un episodio che per ha costituito una svolta nella mia vita e che secondo me è del tutto analogo alla mia svolta di questi giorni.
Nel 1970 ero stato “promosso a giugno” alla quinta dell’ITI per periti chimici.
Un po’ per noia, un po’ perché soldi i miei non ne avevano davvero—mio padre riceveva una pensione di 48.000 lire al mese—ho insistito per andare a lavorare a Torino anche quell’estate. Con quei soldi mi sarei pagato i libri della quinta.
Mio fratello—il maggiore—mi aveva trovato un lavoro in un cantiere edile vicino a casa sua. Quando ci sono andato, assieme all’altro fratello appena più grande di me, il capocantiere e il geometra non si ricordavano di nulla. Comunque mi hanno messo in mano una piccola mazza e uno scalpello e mi hanno detto di scalpellare via una fascia di calcestruzzo alta una decina di centimetri, spessa 5 e lunga-lunga-lunga.
Dopo otto ore, le vesciche sulle mie mani erano tutte scoppiate da ore e le mani quasi non riuscivano più a reggere la mazza e lo scalpello.
Quando il mio fratello maggiore mi ha visto le mani ha detto: “Mettile in acqua e sale e ti passa”. Io le ho messe in acqua e sale e il giorno dopo non ero comunque in grado di continuare quel lavoro.
Mi hanno licenziato e mio fratello si è incazzato.
Con me!
Nel giro di un paio di giorni ho trovato un altro lavoro, adatto a uno studente di 17 anni.
Era in una “cromatura” che lavorava, come tutti, per la FIAT e dovevo semplicemente legare con dei fili di rame dei pezzi di plastica che poi sarebbero stati immersi in una soluzione elettrolitica da cui sarebbero usciti coperti da uno strato sottile di cromo o nichelio.
Ironia della sorte, ero uno dei pochi che capivano quello che stava facendo.
La storia è durata un paio di mesi.
Nel mentre ho litigato con quell’altro fratello da cui mangiavo e così son finito a cenare da solo ogni sera, tranne la domenica.
Non riuscivo a fare amici: ero troppo diverso sia dagli altri operai giovani, che dagli studenti torinesi. Oggi si direbbe che in quei mesi a Torino sono diventato depresso.
Prima di partire sono andato a Porta Palazzo e mi sono comprato un giubbotto “militare” e una borsa militare per metterci i libri di scuola.
Mi ero anche comprato un mangianastri e mio fratello—il maggiore—si è incazzato con me.
Arrivato a casa ho consegnato i miei guadagni a mia madre.
In seguito mi hanno detto che i soldi li avrebbero usati per pagare un po’ di rate della casa che stavano riscattando.
I libri li avrebbero chiesti alla scuola, al patronato.
Hanno mobilitato il vicino di casa socialdemocratico, come il preside della mia scuola.
Quell’anno non ho studiato e così non mi hanno ammesso all’esame di maturità.
E ho anche deciso che, dopo il diploma, non avrei continuato con gli studi.
Sono tornato sulla mia decisione soltanto 15 anni dopo.