Questo mio articolo è stato anonimizzato dal Sardegnablogger.
Le cause storiche le possiamo anche cercare lontano, nella sconfitta di Arborea a Seddori e la conseguente perdita dell’indipendenza, o nella sconfitta della sarda rivoluzione e nel fallimento del tentativo di modernizzare la Sardegna da parte dei sardi stessi.
Ma a queste sconfitte storiche si sarebbe potuto rimediare se la Sardegna avesse mantenuto una sua identità. Invece la borghesia sarda ha scelto di identificare la modernità con la cultura italiana—rinunciando a svolgere il proprio ruolo storico di guida di tutto il popolo—e di identificare tutto ciò che è sardo con l’arretratezza e l’immobilità.
La Sardegna è diventata folklore, un passato idealizzato e spesso ridotto a caricatura, a cui guardare con nostalgia e sensi di colpa misti a (auto)disprezzo.
Una degli artefici principali di questa “grandiosa” operazione di revisione storica—grandiosa nel senso che ha richiesto un lavoro immane di destrutturazione culturale e costruzione di un’intera mitologia—è stata proprio Grazia Deledda.
Vi invito a leggervi (o rileggervi) quello che ho scritto in proposito già molti anni fa, quando ancora ero uno studente all’università di Amsterdam: https://bolognesu.wordpress.com/2010/11/29/linvenzione-del-banditosardo-nellopera-di-grazia-deledda/;https://bolognesu.wordpress.com/2010/11/29/l%E2%80%99invenzione-del-banditosardo-nell%E2%80%99opera-di-grazia-deledda-2-e-fine/
Deledda ha fatto proprio il mito italiano della Sardegna immobile nel tempo—povero Angioy e la sua guerra al feudalesimo, ben cento anni prima: completamente rimosso—e l’ha fatto nel modo che caratterizzerà l’atteggiamento della borghesia sarda fino ai nostri giorni: la “sardità” è bellissima da conservare … negli altri.
Per se stessi è meglio la modernità.
Non posso parlare per le ultime generazioni, visto che manco dalla nostra terra da 30 anni, ma fino agli anni Ottanta tutti i sardi erano intrappolati nel dilemma “Essere sardi o moderni?”
Ci sono segnali che per i giovani questo dilemma non si ponga più, ma intanto il disastro è già avvenuto.
L’atteggiamento della borghesia sarda è quello degli spettatori della sfilata di S. Efis: comodamente seduti in tribuna a godersi lo spettacolo del pittoresco biddunculismo altrui, per poi andare impellicciati al teatro lirico a godersi la Cultura.
Tra gli anni Sessanta e Settanta anche i biddunculus si sono rotti le palle del biddunculismo.
Erano gli anni di “Che roba Contessa, anche l’operaio vuole il figlio dottore!”
Anche il pastore voleva il figlio dottore.
Sono gli anni in cui Gavino Ledda scrive Padre padrone.
Sono gli anni in cui anche le madame bidduncule strillano: “Mi che non voglio a parlarlo in sardo, a mio figlio!”
Il parlare in sardo viene identificato con l’appartenere ai ceti meno competitivi della società sarda: il proletariato agricolo e i famigerati pastori-quasi banditi.
Erano gli anni in cui imperversavano i sequestri e la campagna ferocemente razzista dei media italiani.
Ricordo un titolo di Repubblica: “Arrestata in Puglia una banda di rapinatori, fra cui un sardo”.
Come attestato in L’italiano regionale di Sardegna, di Ines LOI Corvetto (1983) e poi confermato nella ricerca sociolinguistica coordinata dalla professoressa Oppo (2007), a partire dagli anni Settanta anche nelle bidde si interrompe la trasmissione intergenerazionale del sardo.
Da quel momento in poi l’italiano scarciofato di Sardegna diventa, da lingua straniera, la lingua usata all’interno delle famiglie.
La situazione sociolinguistica passa dalla diglossia alla dilalia—meglio definita come bilinguismo verticale da Marc Tamburell—e il sardo diventa il gergo trasgressivo dei maschi, oltre, naturalmente a rimanere la lingua principale dei vecchi e dei ceti sociali meno competitivi.
L’identità dei sardi diventa l’identità sardignola: un ibrido che ne sancisce lo status di italiani di periferia, di serie C, che parlano male l’italiano, ma sono convinti di parlarlo benissimo.
Negli anni Ottanta, Videolina sancirà definitivamente la mutata funzione sociale del sardo, trasmettendo dei western all’italiana doppiati in un sardo che consisteva unicamente di parolacce.
In quegli anni nasce anche il movimento per la lingua, ma anche questo è viziato dall’ideologia deleddiana, che nel mentre è stata rafforzata dagli altri due monumenti della cultura sardignola: Wagner e Lilliu, i formalizzatori della divisione dei sardi in “puri” e “bastardi”.
Al momento della scelta della varietà che debba fungere da standard, la scelta cade, deleddianamente, sul sardo “più puro e autentico”, cioè quello che rappresenta la sardità eternamente sconfitta dalla “modernità”, la sardità immobile della “costante resistenziale”, la sardità bidduncula e montanara.
Non a caso questa scelta ha diviso immediatamente il fronte della lingua in due: una maggioranza che la rifiuta e una minoranza che ci si aggrappa disperatamente, sentendosi “unta dal Signore”.
Non a caso i due tentativi di imporre per delibera il sardo minoritario alla maggioranza sono falliti.
C’è però da aggiungere che nel caso della LSC, c’è stato da parte della commissione il tentativo di trovare una mediazione, ancora insufficiente, è vero, ma che non privilegiava sfacciatamente la varietà minoritaria.
Purtroppo, l’applicazione della LSC da parte dei burocrati della RAS ne ha visto lo stravolgimento e la sua riduzione alla versione “deleddiana” dell’idea di lingua sarda.
Ancora il sardo non possiede uno standard e non si intravvede la possibilità di raggiungerlo, soprattutto in presenza di un governo regionale che brilla per il suo menefreghismo sulla questione.
Il sardo è moribondo.
Continua ad essere appreso dai giovani come lingua trasgressiva, ma non viene più appreso dall’interazione con parlanti di prima lingua e mostra pesantissime interferenze dall’italiano, anche a livello grammaticale.
Mancano degli studi precisi, ma nel caso dei giovani forse è il caso di parlare di “neosardo”.
Ma soprattutto, la lingua “naturale” dei giovani è diventato l’italiano scarciofato di Sardegna.
Oggi, e lo conferma il fatto che io, per essere letto al di fuori di una piccola cerchia, debba scrivere in italiano, il sardo non rappresenta più la maggioranza dei sardi.
Per la comunicazione normale, ormai, i sardi utilizzano l’italiano scarciofato.
E siccome è la lingua a darci un’identità, i sardi si ritrovano con un’identità italiana scarciofata, di serie C.
Sufficiente a frustrarli come italiani, ma insufficiente a farli sentire sardi, in senso inclusivo, e non-italiani, in senso esclusivo.
Fesserie tipo: “L’Identità ce la da una storia condivisa”, non appoddant a nisciunu logu.
Mia nonna materna non sapeva una mazza di storia sarda, ma era sarda perché parlava in sardo e non in italiano.
E allora, come si può arrivare all’indipendenza di un popolo con un’identità italiana scarciofata, ma italiana?
Io non lo so e non credo che sia possibile arrivarci.
Quello che occorre alla Sardegna è un rinnovamento radicale della sua classe dirigente.
Alla Sardegna occorre una classe dirigente che pensi in sardo e guardi ai nostri problemi con occhi sardi.
E credo che questo l’attuale classe dirigente—governo regionale in testa—l’abbia capito molto bene.
Impegnarsi per il sardo come lingua (co)ufficiale della sardegna significherebbe per l’attuale classe dirigente italofona scavarsi la fossa da soli.
Non lo faranno mai.
Incominciando dai sedicenti indipendentisti, quelli all’amatriciana, quelli che sognano l’Irlanda.
P.S. Visto il successo dell’articolo, propongo, anche se in ritardo, la lettura del lavoro che ne ha permesso la scrittura: Le identità linguistiche dei sardi
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