Archive for July, 2015

July 29, 2015

Donostia capitale europea della cultura 2016, chissà perchè?

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Chi glielo spiega ai chjasteddai che vergognarsi di se stessi non paga, mentre rivendicare la propria identità paga?

Paga, eccome se paga!

Cagliari è solo il capoluogo di una provincia italiana di periferia: chi vi caga?

Casteddu est sa capitale de is sardos, ma nemos dd´at candidada.

July 28, 2015

Voyager: chi le spara davvero le cazzate?

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Non ho visto il programma, ma le cose che dice Alessandro Zorco mi ricordano qualcosa.

July 27, 2015

Sa bellesa de Donostia (San Sebastian) e sa lingua de is feminas

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Donostia est rica, bella, elegante.

Prena de turistas, ma non est una tzitade pro turistas.

Est una tzitade manna, bella, rica, elegante.

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Sa burghesia basca non est sa burghesia priogosa de Sardinnia.

Sunt ricos dae semper e si biet.

Ricos e bascos.

Custos non sunt canes de stergiu ke is meres nostros sardinniolos.

E camminas in mesu a custa bellesa e richesa e t’arrinegas, pensende a su chi iat a poder esser Casteddu, in manu a genti sarda de a beru, e ti passant acanta tres pitzocas.

Tres pitzocas faeddende in bascu, in euskera, mi´!.

Is tres de sa fotografia.

A bi ddas bies tres pitzocas faeddende in sardu in una ruga de Casteddu?

E tando is contos torrant totus.

Pro custu Casteddu mancu acanta si bolet a Donostia.

E biende cantu fiat moderna Donostia chentu annos a immoe, cumprendes puru su museu Guggenheim.

Man-In-Kim e Quintino Sedda non cumprendent una chibudda.

Non ant mai cumpresu nudda e ancora non cumprendent nudda.

Non est su dinari ki faet sa curtura, ma sa curtura ki faet su dinari.

Sunt veteromarxistas–“La cultura è sovrastruttura”–kentza de esser mai stados sa cosa bona de su marxismu.

Una cosa sceti mi dispraxet: mi nde seo scadesciu de torrare gratzias a cussas pitzocas in euskera pro sa fotografia.

Eskerrik asko.

July 23, 2015

La favada asturiana e l´identità

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Io non dico i fagioli …

Questi asturiani sono davvero fissati con i fagioli.

Fagioli dappertutto!

Nei negozi di souvenir, ma anche in tutti gli atri negozi in cui si vende qualcosa che vagamente si possa mangiare o che vagamente abbia a che fare con le Asturie.

E va bene che sono molto grandi, ma chiamarli “faves”?

Questa è megalomania bella e buona!

E cari mi´!

Ne ho visto anche da dodici euro al chilo.

E questa “favada asturiana” poi …

L´ho mangiata due volte e … massì, buona, ma niente di speciale.

Manco vicino alle nostre fave bollite cun croxolu.

O pisci a colletu chi siat.

Eppure, sembrerebbe che gli asturiani ricavino la loro identità da questo piatto contadino, povero in origine: fagioli bianchi, un po´ di pancetta salata, un po´ di chorizo, un po´ di sanguinaccio.

Insomma, il corrispondente delle nostre fave bollite cun croxolu.

Provo ad immaginarmi Cagliari con le vetrine piene di fave, ma non ci riesco.

Come non riesco a immaginarmela bella come Oviedo.

O viva come Oviedo.

Eppure, come il Regno di Spagna è cominciato dalle Asturie, il Regno d´Italia è cominciato dalla Sardegna.

Ma il rapporto che le Asturie hanno mantenuto con la Spagna non è quello che la Sardegna si è lasciata imporre dall´Italia.

La borghesia asturiana esibisce i propri fagioli, mentre la borghesia sarda si vergogna delle proprie fave.

E i magnifici palazzi di Oviedo sono stati costruiti negli anni in cui i Catalani, prima, e gli spagnoli, poi, rinsaldavano il loro potere sulla Sardegna.

Cagliari e Oristano non sarebbero mai più diventate magnifiche come Oviedo o Bilbao.

In un certo senso, la bellezza della Spagna è costruita sulla distruzione delle classi dirigenti sarde.

Ma se Colombo non avesse scoperto l´America e il Mediterraneo avesse mantenuto il suo ruolo centrale …

Insomma, se mia nonna avesse le ruote…

La Sardegna è rimasta schiacciata sotto una serie di coincidenze sfortunate, che hanno avuto come conseguenze principali la mancata formazione di una borghesia nazionale e l´allontamento dei sardi dal mare: insieme, questi due fattori hanno portato i sardi a identificarsi con la loro bidda e non con tutta la Sardegna.

Perché la Sardegna la vedi al meglio quando te ne vai, quando la vedi da fuori, contrapposta al resto del mondo e non alle altre bidde sarde.

E quando la vedi da fuori, scopri che il piatto nazionale dei sardi non è il porchetto—cibo delle feste e di chi poteva permetterselo—ma sa faa a buddíu.

Il cibo di tutti, che si mangia con le mani e, ormai, solo in un gruppo di amici.

Insomma, gli asturiani sono riusciti a restare una nazione e celebrano il loro essere nazione mangiando la loro favada.

Noi sardi, con il nostro complesso di inferiorità: quello della nostra borghesia coloniale—proponiamo ai turisti e all´Expo il porchetto, il cibo dell´eccezione.

Francamente, io una famiglia sarda borghese non ce la vedo proprio mangiare faa a buddíu.

E adesso mi ricordo di quella volta che mia mamma—io stavo mangiando fave bollite con le mani—quando è entrato il marito ricco di mia nipote torinese, per giustificarmi, ha detto: “Così mangiavamo quando eravamo poveri”.

Anche mia mamma identificava la tradizione con la miseria.

Ecco perché Oviedo è molto più bella di Cagliari, ancora oggi.

Ah, e con la favada asturiana si troddia almeno quando con la fava sarda.

Tanto per capirci.

July 16, 2015

Il buco del culo di Cicciolina e l´identità

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Ci ho messo un paio di giorni a digerire la visita al museo Guggenheim di Bilbao.

Troppe impressioni e tutte molto forti.

Non mi metto a parlare del museo in sé: visto vuole!

Ma voglio dire qualcosa di quello che ho visto all´interno del museo.

C´erano tre esposizioni e tutte molto estreme.

L´unica che mi sia piaciuta consisteva di paesaggi costruiti con enormi lastre di acciaio—grosse abbastanza per una corazzata—e così grandi che ti ci potevi quasi perdere.

Camminare dentro quei paesaggi ti dava le vertigini.

Cattedrali di acciaio labirintiche.

Poi c´era l´esposizione dell´opera di un nero americano, morto a 28 anni.

Jean … la memoria mi sta abbandonando.

Se voleva rappresentare le bruttezza della vita dei neri americani, c´è riuscito molto bene.

E poi c´era la retrospettiva di Jeff Koons.

Eja, quello che riesce a far credere a certi ricchi polli che il kitsch sia arte.

La vera arte di Koons consiste nel modo in cui riesce a friggere l´aria per giustificare le sue cagate.

Bellissime frasi completamente prive di significato.

Esattamente come i suoi lavori.

E al centro della sala centrale della retrospettiva c´era la scultura a colori di Jeff che si tromba Cicciolina.

Un fallimento anche come opera pornografica, visto che non fa assolutamente arrettare, anzi!

Era vagamente disgustosa, coperta di quella melassa dolciastra in cui Koons riesce benissimo.

La cosa che mi ha colpito di più, in questo miscuglio di iper- e pseudorealismo,  è stato il buco del culo di Cicciolina.

Jeff si è rappresentato con due palle, che manco il toro cantabrico che ho visto ieri, e la lelledda che sparisce nel pillittone di Ilona.

E al di sotto—particolare iperrealistico—il tondino di Cicciolina.

Il buco del culo di Ilona Staller come centro dell´universo.

Oddío, riesco a immaginarmi di meglio.

E allora ti chiedi cosa c´entri tutto quello con l´identità dei baschi.

Perché hanno voluto questo monumento all´arte che non è più arte, ma chissà cosa?

Mi è tornato in mente un giudizio dato una volta da un amico galego: “Trogloditi! I baschi sono trogloditi!”

Erano gli anni in cui l´ETA ancora ammazzava e sempre più assurdamente.

Ma in quel giudizio ho riconosciuto anche lo stesso razzismo degli italiani nei confronti dei sardi.

E allora mi chiedo se la scelta estremista—perché tale è il Guggenheim: vedere per credere!—non sia una reazione a un complesso di inferiorità analogo a quello dei sardi.

Il paese basco è comunque tutto ipermoderno.

La cosa ti colpisce immediatamente quando arrivi da Biarritz: autostrade che farebbero invidia a quelle olandesi, ma in montagna, con ponti e tunnel che gli olandesi non hanno bisogno di costruire.

E il paesaggio ben curato e i bordi delle strade puliti, come in Olanda.

Più puliti che in Francia.

ll benessere si respira nell´aria.

Il Paese Basco è ricco, solo un po´ meno ricco della Catalogna.

E lo è da sempre: basta girare per le strade di Bilbao e guardare i bei palazz antichi, meno antichi e moderni.

E dappertutto i cartelli stradali e tutte le indicazioni in basco.

Anche per la macchinetta per pagare il parcheggio: ho dovuto chiedere aiuto in un negozio!

E sto per dire che—come nel caso della Catalogna—non possiamo certamente prendere i baschi a modello, perché anche loro hanno una borghesia nazionale e non quei quattro mendicanti di classe dirigente che abbiamo noi.

Ma c´era una cosa strana: non ho sentito una sola parola in basco in tutta la giornata.

Bilbao—almeno in quello—come Casteddu.

Ora è vero che anche a Barcellona si senteparlare  molto spagnolo, ma a Bilbao si sente solo lo spagnolo.

Insomma, a quello che ho potuto vedere, una situazione analoga a quella irlandese: ostentazione della lingua nello scritto e latitanza nel parlato.

E allora?

E allora il rapporto tra lingua e identità di un popolo non è così meccanico, come non lo è quello tra lingua e identità della borghesia.

Perché non credo che si possa dubitare del fatto che i baschi abbiano una forte identità.

Ma queste sono le impressioni di un turista che ha girato per alcune ore per le strade di Bilbao.

Torneremo nel Paese Basco tra poco.

Forse riuscirò a capire di più.

Per ora posso dire  soltanto che—con tutti i loro soldi—i baschisono mi  sembrano basare la loro identità più sul buco del culo postmoderno  di Cicciolina che sulla loro lingua.

Che abbiamo ragione il nostro amato leader Man-In-Kim e il suo ministro delle finanze Quintino Sedda?

I soldi non faranno la felicità, ma ti danno un´identità?

Ne riparlerò dopo Donostia (San Sebastian)..

July 13, 2015

Perché la Sardegna non sarà mai indipendente (articolo anonimizzato da Sardegnablogger)

Questo mio articolo è stato anonimizzato dal Sardegnablogger.

Le cause storiche le possiamo anche cercare lontano, nella sconfitta di Arborea a Seddori e la conseguente perdita dell’indipendenza, o nella sconfitta della sarda rivoluzione e nel fallimento del tentativo di modernizzare la Sardegna da parte dei sardi stessi.

Ma a queste sconfitte storiche si sarebbe potuto rimediare se la Sardegna avesse mantenuto una sua identità. Invece la borghesia sarda  ha scelto di identificare la modernità con la cultura italiana—rinunciando a svolgere il proprio ruolo storico di guida di tutto il popolo—e di identificare tutto ciò che è sardo con l’arretratezza e l’immobilità.

La Sardegna è diventata folklore, un passato idealizzato e spesso ridotto a caricatura, a cui guardare con nostalgia e sensi di colpa misti a (auto)disprezzo.

Una degli artefici principali di questa “grandiosa” operazione di revisione storica—grandiosa nel senso che ha richiesto un lavoro immane di destrutturazione culturale e costruzione di un’intera mitologia—è stata proprio Grazia Deledda.

Vi invito a leggervi (o rileggervi) quello che ho scritto in proposito già molti anni fa, quando ancora ero uno studente all’università di Amsterdam:  https://bolognesu.wordpress.com/2010/11/29/linvenzione-del-banditosardo-nellopera-di-grazia-deledda/;https://bolognesu.wordpress.com/2010/11/29/l%E2%80%99invenzione-del-banditosardo-nell%E2%80%99opera-di-grazia-deledda-2-e-fine/

Deledda ha fatto proprio il mito italiano della Sardegna immobile nel tempo—povero Angioy e la sua guerra al feudalesimo, ben cento anni prima: completamente rimosso—e l’ha fatto nel modo che caratterizzerà l’atteggiamento della borghesia sarda fino ai nostri giorni: la “sardità” è bellissima da conservare … negli altri.

Per se stessi è meglio la modernità.

Non posso parlare per le ultime generazioni, visto che manco dalla nostra terra da 30 anni, ma fino agli anni Ottanta tutti i sardi erano intrappolati nel dilemma “Essere sardi o moderni?”

Ci sono segnali che per i giovani questo dilemma non si ponga più, ma intanto il disastro è già avvenuto.

L’atteggiamento della borghesia sarda è quello degli spettatori della sfilata di S. Efis: comodamente seduti in tribuna a godersi lo spettacolo del pittoresco biddunculismo altrui, per poi andare impellicciati al teatro lirico a godersi la Cultura.

Tra gli anni Sessanta e Settanta anche i biddunculus si sono rotti le palle del biddunculismo.

Erano gli anni di “Che roba Contessa, anche l’operaio vuole il figlio dottore!”

Anche il pastore voleva il figlio dottore.

Sono gli anni in cui Gavino Ledda scrive Padre padrone.

Sono gli anni in cui anche le madame bidduncule strillano: “Mi che non voglio a parlarlo in sardo, a mio figlio!”

Il parlare in sardo viene identificato con l’appartenere ai ceti meno competitivi della società sarda: il proletariato agricolo e i famigerati pastori-quasi banditi.

Erano gli anni in cui imperversavano i sequestri e la campagna ferocemente razzista dei media italiani.

Ricordo un titolo di Repubblica: “Arrestata in Puglia una banda di rapinatori, fra cui un sardo”.

Come attestato in L’italiano regionale di Sardegna, di Ines LOI Corvetto (1983) e poi confermato nella ricerca sociolinguistica coordinata dalla professoressa Oppo (2007), a partire dagli anni Settanta anche nelle bidde si interrompe la trasmissione intergenerazionale del sardo.

Da quel momento in poi l’italiano scarciofato di Sardegna diventa, da lingua straniera, la lingua usata all’interno delle famiglie.

La situazione sociolinguistica passa dalla diglossia alla dilalia—meglio definita come bilinguismo verticale da Marc  Tamburell—e il sardo diventa il gergo trasgressivo dei maschi, oltre, naturalmente a rimanere la lingua principale dei vecchi e dei ceti sociali meno competitivi.

L’identità dei sardi diventa l’identità sardignola: un ibrido che ne sancisce lo status di italiani di periferia, di serie C, che parlano male l’italiano, ma sono convinti di parlarlo benissimo.

Negli anni Ottanta, Videolina sancirà definitivamente la mutata funzione sociale del sardo, trasmettendo dei western all’italiana doppiati in un sardo che consisteva unicamente di parolacce.

In quegli anni nasce anche il movimento per la lingua, ma anche questo è viziato dall’ideologia deleddiana, che nel mentre è stata rafforzata dagli altri due monumenti della cultura sardignola: Wagner e Lilliu, i formalizzatori della divisione dei sardi in “puri” e “bastardi”.

Al momento della scelta della varietà che debba fungere da standard, la scelta cade, deleddianamente, sul sardo “più puro e autentico”, cioè quello che rappresenta la sardità eternamente sconfitta dalla “modernità”, la sardità immobile della “costante resistenziale”, la sardità bidduncula e montanara.

Non a caso questa scelta ha diviso immediatamente il fronte della lingua in due: una maggioranza che la rifiuta e una minoranza che ci si aggrappa disperatamente, sentendosi “unta dal Signore”.

Non a caso i due tentativi di imporre per delibera il sardo minoritario alla maggioranza sono falliti.

C’è però da aggiungere che nel caso della LSC, c’è stato da parte della commissione il tentativo di trovare una mediazione, ancora insufficiente, è vero, ma che non privilegiava sfacciatamente la varietà minoritaria.

Purtroppo, l’applicazione della LSC da parte dei burocrati della RAS ne ha visto lo stravolgimento e la sua riduzione alla versione “deleddiana” dell’idea di lingua sarda.

Ancora il sardo non possiede uno standard e non si intravvede la possibilità di raggiungerlo, soprattutto in presenza di un governo regionale che brilla per il suo menefreghismo sulla questione.

Il sardo è moribondo.

Continua ad essere appreso dai giovani come lingua trasgressiva, ma non viene più appreso dall’interazione con parlanti di prima lingua e mostra pesantissime interferenze dall’italiano, anche a livello grammaticale.

Mancano degli studi precisi, ma nel caso dei giovani forse è il caso di parlare di “neosardo”.

Ma soprattutto, la lingua “naturale” dei giovani è diventato l’italiano scarciofato di Sardegna.

Oggi, e lo conferma  il fatto che io, per essere letto al di fuori di una piccola cerchia, debba scrivere in italiano, il sardo non rappresenta più la maggioranza dei sardi.

Per la comunicazione normale, ormai, i sardi utilizzano l’italiano scarciofato.

E siccome è la lingua a darci un’identità, i sardi si ritrovano con un’identità italiana scarciofata, di serie C.

Sufficiente a frustrarli come italiani, ma insufficiente a farli sentire sardi, in senso inclusivo, e non-italiani, in senso esclusivo.

Fesserie tipo: “L’Identità ce la da una storia condivisa”,  non appoddant a nisciunu logu.

Mia nonna materna non sapeva una mazza di storia sarda, ma era sarda perché parlava in sardo e non in italiano.

E allora, come si può arrivare all’indipendenza di un popolo con un’identità italiana scarciofata, ma italiana?

Io non lo so e non credo che sia possibile arrivarci.

Quello che occorre alla Sardegna è un rinnovamento radicale della sua classe dirigente.

Alla Sardegna occorre una classe dirigente che pensi in sardo e guardi ai nostri problemi con occhi sardi.

E credo che questo l’attuale classe dirigente—governo regionale in testa—l’abbia capito molto bene.

Impegnarsi per il sardo come lingua (co)ufficiale della sardegna significherebbe per l’attuale classe dirigente italofona scavarsi la fossa da soli.

Non lo faranno mai.

Incominciando dai sedicenti indipendentisti, quelli all’amatriciana, quelli che sognano l’Irlanda.

P.S. Visto il successo dell’articolo, propongo, anche se in ritardo, la lettura del lavoro che ne ha permesso la scrittura:  Le identità linguistiche dei sardi 

Ordinando il libro attraverso la mail della Condaghes, è possibile riceverlo in tre giorni

July 13, 2015

Non passeró alla storia con Sardegnablogger: sto morendo di dolore!

Sardegnablogger ha deciso di eliminare il mio nome dagli articoli da me scritti quando facevo parte del collettivo.

Oddío, che onore: lo stesso riservato a Trotsky da Stalin.

Speriamo che si limitino a quello e non mi mandino anche un picconatore belga a completare il lavoro.

Solo una cosa non capisco: perché cazzo non eliminano direttamente gli articoli?

Forse per via delle 5630 visualizzazioni di, per esempio, questo?

Oddío, adesso che hanno censurato il mio nome, moriró in miseria e dimenticato da tutti.

Sto pensando al suicidio!

July 10, 2015

Chiuso per ferie

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Una pariga de chidas in su paisu bascu, in chirca de basca, ca innoxe est fende frius.

Forsis apo a scrier de is cosas ki faent is bascos.

July 6, 2015

Il diritto alla felicità (replica)

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Sempre attuale

Dall’altra parte del tunnel c’era davvero il casino di cui aveva parlato Edith: i 20 centimetri di neve erano caduti davvero, lì e solo lì, tra la costa e Amsterdam, ed erano stati schiacciati dalle ruote delle macchine e trasformati in alcuni centimetri di ghiaccio.
Tutti andavamo molto piano: 20, 30 all’ora, ma comunque dopo poche decine di metri la fila si fermava. Poi, lentamente, si rimetteva in moto per fare un altro tratto di strada scivolosa.
Ero lo stesso contento di aver fatto la maggior parte della strada a una velocità quasi normale e soprattutto non volevo aggiungere anche l’incazzatura allo stress del guidare sul ghiaccio.
Ascoltavo la radio: il ministro delle Finanze voleva recuperare dall’Islanda i soldi che aveva anticipato per rimborsare quegli Olandesi che, per un interesse del 5,25%, avevano “affidato i loro risparmi” alla banca islandesi online Icesave.
Le banche olandesi in quel periodo pagavano ai risparmiatori mediamente un interesse dell’1,8%.
Icesave era fallita, e il ministro olandese si era impegnato a rimborsare quei “risparmiatori”olandesi che rischiavano di veder sparire i loro soldi nel Maelström generato dalla creatività dei banchieri vichinghi.
Il presidente islandese gli aveva risposto di ripassare, ma Bos, l’Olandese, gli urlava in termini diplomatici: “Aridatece li sordi!”
Lo spettacolo non gli era piaciuto e in linguaggio europeista gli diceva pure l’equivalente di “Ti nci fatzu fichiri!”: “Potete scordarvi l’ammissione all’Unione Europea!”
Io avevo seguito la storia alla radio.
Da quando mi sono arreso e mi sono motorizzato anch’io, mentre vado al lavoro ascolto la Buisiness News Radio, che poi sarebbe la versione radiofonica del FinanciëleDagblad (Quotidiano Finaziario): liberali nel bene e nel male e così ho cominciato a capire qualcosa di economia.
Quando hanno spiegato che se una banca paga così tanti interessi al “risparmiatore” è perché sono loro che hanno un bisogno disperato di soldi, l’ho capito subito: usura al contrario!
Anzi, la democratizzazione dell’usura: soltanto in Olanda 160.000 di questi “risparmiatori” e circa 300.000 in Gran Bretagna.
No, nessuno di loro aveva capito che se tu presti i tuoi soldi a chi ne ha diperatamente bisogno, corri anche dei rischi. Nessuno, neppure le due provincie olandesi che hanno “parcheggiato” alcune centinaia di milioni dei contribuenti nelle casseforti virtuali della Icesave.
Su Internet si trova ancora il sito di questi campioni del gioco delle tre carte (http://www.homefinance.nl/algemeen/nieuws/icesave-introduceert-internetspaarrekening.asp).
Ci si può leggere: “Nel 2006 Icesave è stata introdotta sul mercato inglese ed è stata proclamato in quel paese come il miglior prodotto bancario online”.
Ma adesso gli Inglesi sono ancora più incazzati degli Olandesi: gli smemorati del Collegnoshire.
Adesso gli Islandesi-tutti gli Islandesi-pagheranno per rimborsare i risparmiatori/usurai olandesi e brittannici, perché ormai-i grandi banchieri internazionali hanno aperto la breccia-tutti hanno il diritto di non perdere a poker.
L’altra notizia del giorno era quella del ministro della sanità che ha deciso che la mortalità perinatale (prima del parto, durante e immediatamente dopo il parto) deve essere dimezzata.
In Olanda muore un neonato su cento: in Europa, soltanto la Francia e l’Estonia superano, e di poco, l’Olanda.
In Slovacchia, Svezia e Lussemburgo la mortalità è inferiore di circa il 50%.
Forse è da questo dato che deriva l’ambizione del ministro.
La soluzione? Un coordinamento più efficace tra ginecologi e ostetriche.
Nei mesi scorsi-la notizia non è quella della percentuale di decessi di neonati, ma quella dei provvedimenti del ministro-il tema è stato dibattuto abbastanza estesamente.
Alcuni ginecologi hanno timidamente fatto notare che un’altro record olandese era direttamente collegato al precedente: quello dell’età in cui le donne hanno il primo figlio.
L’età media in cui una donna olandese ha il primo figlio è di 29,4 anni, mentre oltre il 5% ha il primo figlio all’età di 38 anni (http://www.rivm.nl/vtv/object_document/o2696n21015.html#1).
Ho letto e ascoltato diverse interviste a donne che spiegavano perché il primo figlio fosse arrivato così tardi. No, non era la carriera-ci mancherebbe altro!-a impedire quella scelta: prima bisognava trovare l’uomo giusto!
Per capirci: per gli uomini vale lo stesso discorso!
Questa lettera a una rivista femminile può aiutare a capire: “Negli ultimi tempi sto pensando molto al fenomeno bambini. Ho 26 anni e il mio tesoro ne ha quasi 29. Ancora giovani e fighi. Abbiamo appena comprato la nostra seconda casa e fra sei mesi traslocheremo. Abbiamo un lavoro sicuro, ecc. Ma quale sia l’età giusta per restare incinta non si può dire, naturalmente, e questo lo rende anche così “pesante”. Fra un po’ magari lo troverò difficile e comincerò troppo tardi. Fra due anni mi piacerebbe, ma il mio tesoro deve anche lui essere arrivato a questa conclusione, naturalmente.”
(http://forum.viva.nl/forum/Kinderen/Eerste_kind_beste_leeftijd/list_messages/15392)
Siamo tutti bravissimi a raccontar balle a noi stessi e queste donne non fanno eccezione.
Poi arrivano i 35 anni!
Quello dei 35 anni è il confine che una donna non può superare se vuole avere ancora delle possibilità ragionevoli di avere dei figli-e possibilmente sani.
A 35 anni queste donne vanno davvero in fregola: il loro “istinto materno” diventa irresistibile e allora…vai col figlio!
Fa un effetto strano vedere sul piazzale della scuola quasi soltanto tardone di oltre 40 anni ad aspettare che escano i bambini.
Ad Amsterdam è così.
Ma già, come anche da noi, queste donne di mezza età parlano di se stesse come delle “ragazze”.
“Ragazze” di oltre 40 anni!
Oddío, “ragazze” lo sono pure, nel senso di immature e irresponsabili.
Ragazze e ragazzi che hanno “diritto alla felicità”.
Pare che questa coglionata sia stata una delle tante nate dalla Rivoluzione Francese.
Datemi pure del reazionario, ma indovinate da dove devono venire i soldi per dimezzare la mortalità perinatale? Risparmiando sul resto della sanità, perché, dato che il governo si è svenato per salvare le banche, bisognare tagliare su tutto.
Naturalmente il ministro si è guardato bene dal fare il collegamento tra la mortalità perinatale e l’età delle madri: chissà quanti voti-di sinistra-gli sarebbe costato!
Per la cronaca, il ministro in questione, Abraham (Ab) Klink, è democristiano.
Ho fatto un collegamento tendenziosissimo tra il salvataggio delle banche e il salvataggio dei figli delle tardone.
Ma l’ho fatto io?
Il diritto alla felicità è il diritto di non perdere a poker?
Sempre mercoledì scorso, avantieri: la mia alunna che aveva scaricato la metà della sua tesina da Internet, quando le ho detto che mi aveva costretto a lavorare quattro ore per stabilire esattamente cosa aveva copiato e cosa no-visto che immaginavo che lei avrebbe rotto i coglioni-ha detto serenamente: “Ma io devo tutelare i miei interessi!”
Anche lei-copiare l’abbiamo fatto tutti!-rivendicava il diritto di non perdere a poker.
È ora che ci liberiamo anche di quest’altra coglionata del “diritto alla felicità”.
Shit happens!
Happiness too!
E non c’è bisogno di scomododare la filosofia Zen per capirlo!

Per fare i 6 chilometri dal tunnel a casa di Edith ci ho messo un’ora.
Lei era completamente nel pallone perché sua figlia era bloccata ad Amsterdam: la stazione di Haarlem era chiusa per la neve.
Voleva andare ad Amsterdam per riportare la figlia a casa. Le ho detto che ci avrebbe messo almeno sei ore ad andare e tornare e che sua figlia aveva 20 anni: bisognava trovarle lì un posto dove dormire.
Sua figlia è andata a dormire da un’amica, ma noi abbiamo litigato lo stesso perché Edith non voleva sentir parlare dei risparmiatori/usurai.

July 2, 2015

Piste ciclabili: risposta a Giorgioni e a Tzoroddu

fiets

Speriamo che questa discussione serva a qualcosa.

Speriamo.

Francesco Giorgioni, su Sardegnablogger, risponde al mio articolo di ieri, argomentando giustamente che il cicloturismo (italiano) ha i suoi canali alternativi per comunicare le mete e i percorsi interessanti.

Il suo articolo mi ha fatto capire che il mio di ieri è scritto da un punto di vista olandese e quindi forse impossibile da capire in Sardegna.

Francesco scrive che “Bisogna spiegare che la rete ciclabile non serve all’impiegato del catasto per andare in bicicletta in ufficio, quantomeno non è lui il primo beneficiario del progetto.”

E invece io–con un possibile errore di prospettiva–pensavo proprio a chi considera la bicicletta un mezzo di trasporto e non uno strumento per fare dello sport.

Pensavo agli olandesi, ma ai nord europei in genere che, tutti insieme, sono molti di più degli italiani che vanno in bicicletta per dimagrire.

Frecciatina bonaria a Francesco, che pensa–ma lo pensa lui–di essere grasso.

Insomma, Giorgioni pensa a un turismo di nicchia.

Io pensavo a un turismo molto più diffuso al di fuori dell’Italia.

Pensavo a famiglie intere che si spostano in bicicletta sulle piste ciclabili, come avviene in Olanda, ma non solo.

E allora, ripeto, in questo caso il progetto mette il carro davanti ai buoi: idea fantastica, ma irreale se non si fa conoscere la Sardegna all’estero.

E naturalmente–ieri avevo tralasciato di parlarne, ma, come fa notare in un commento Mikkelj Tzoroddu, c’è anche il problema dei trasporti.

Non tanto quelli interni, che sarebbe risolti, appunto, dalle biciclette.

L’altro problema da affrontare, per far espandere il turismo in Sardegna, è quello enorme dei collegamenti con il mondo esterno.

Insomma: destinare otto milioni alla realizzazione delle piste ciclabili, prima di aver affrontato questi due problemi, mi sembra–diciamo così–ingenuo.

Ma, se io avessi torto, e il cicloturismo fosse inteso come riservato a un numero selezionato di appassionati, allora la cifra destinata al visionario–in senso buono– progetto delle piste ciclabili sarebbe assolutamente sproporzionata ai risultati ottenibili.

Quanti anni occorrerebbero per far guadagnare alla società sarda, attraverso il cicloturismo di nicchia, gli otto milioni investiti dai contribuenti isolani?

Ora, comunque lo si osservi, questo progetto deve essere ancora messo a fuoco per diventare realistico.

Dicevo: otto milioni di euro, una cifra spropositata per il cicloturismo di nicchia.

Ma una cifra irrisoria rispetto al numero di kilometri che si vogliono realizzare: 2700, secondo Enrico Napoleone.

Ora, in Olanda, grande un po’ più della Sardegna e terra di biciclette per antonomasia, ci sono 35.000 kilometri di piste ciclabili: http://www.fietsersbond.nl/nieuws/bijna-35000-km-fietspad-nederland#.VZTX3fntmko

Questa rete è stata realizzata in oltre un secolo e non ho idea di quanto sia costata.

Se il modello delle piste ciclabili che intende realizzare questa giunta è quello olandese, allora quei 2700 kilometri, sono, come dice Enrico Napoleone, un ‘utopia paragonabile a quella del Canton Marittimo.

Quanti anni e quanti soldi occorrerebbero per realizzarla?

Speriamo che questa discussione serva a qualcosa: l’idea delle piste ciclabili è fantastica, ma ancora completamente irreale.