Chi deve insegnare il sardo

Uno degli argomenti usati a suo tempo dal Prof. Giovanni Lupinu per mettere in discussione i risultati della ricerca sociolinguistica a cui lui stesso aveva preso parte era il seguente: “Si è provato a spiegare il valore reale di questo dato, soprattutto confrontandolo con una serie di altri che documentano, ad esempio, che in Sardegna ci si rivolge ai figli in “dialetto” solo nel 16% dei casi (con l’eccezione rilevante del tabarchino): una lingua vive attraverso la trasmissione di genitore in figlio, sicché questo è un dato assai critico per la sopravvivenza del sardo.” (articolo dell’8 maggio)

Giovanni Lupinu non si spiega come mai, se una percentuale così bassa di bambini apprende il sardo in famiglia, si arrivi poi a una percentuale totale di persone che dichiarano di avere una competenza attiva del sardo pari al 68,4.

La conclusione tratta dal Professore rispetto a questa discrepanza tra i dati–“gli intervistati hanno voluto compiacere l’intervistatore, dichiarando di conoscere il sardo anche quando questo non è vero”–si potrebbe anche ribaltare: “gli intervistati hanno dichiarato di non usare il sardo con i propri figli, perché si vergognano di ammetterlo.”

Potremmo, cioè, rispondere ad un’interpretazione arbitraria con un’altra interpretazione arbitraria e contrapporre così una posizione ideologica all’altra, ma la scienza e l’ideologia si distinguono dal fatto che le affermazioni scientifiche sono verificabili, mentre le sparate ideologiche non lo sono.

Per poter interpretare questi dati in modo più corretto occorre prendere in considerazione altri dati, che rispondo alle seguenti domande.

Quanti sono i sardi giovani che hanno una competenza attiva della loro lingua locale?

A che età arrivare a formare la propria competenza?

Da chi apprendono la lingua locale?

La stessa ricerca sociolinguistica coordinata a suo tempo dalla Prof.ssa Emerita Anna Oppo contengono le risposte–in taluni casi implicite–a queste domande. (Le lingue dei sardi: chirca sotziulinguistica)

Le lingue dei bambini. Il piccolo campione di bambini e ragazzi di età compresa fra i 6 e i 14 anni che hanno risposto ad una breve intervista nel corso della presente ricerca si sono dichiarati competenti attivi in una delle lingue locali nel 42,9% dei casi, competenti passivi per il 36,4% e solo il 20,7% ha dichiarato di non avere alcuna conoscenza delle parlate locali. […]
Nel complesso si dichiarano competenti attive più le femmine che i maschi, con differenze significative per l’uno e per l’altro sesso in termini di età e classe scolastica frequentata.
Nella classe di età 6-8 anni il 43% delle bambine dichiara di conoscere e di parlare una lingua locale contro il 15% dei maschi ma a 12-14 anni il rapporto si rovescia poiché il 55% dei maschi si dichiara competente attivo contro il 50% delle femmine” (Le lingue dei sardi:37)

[…]

“Come si può vedere, già nei primi tre anni delle elementari i bambini cominciano ad apprendere il sardo da persone diverse dai loro genitori: “La frequenza scolastica sembra dare parzialmente conto di queste differenze: per i maschi passare da una classe scolastica all’altra incrementa notevolmente la conoscenza delle parlate locali – dal 22,5% delle prime tre classi elementari al 63,6% della terza media – per le bambine la scuola sembra quasi costituire un freno poiché il vantaggio iniziale sui coetanei dell’altro sesso delle prime classi
elementari viene perso nel corso degli anni scolastici dato che in terza media la conoscenza attiva delle lingue locali riguarda il 47,1% delle alunne”. (Le lingue dei Sardi: 38)

In questi dati si trova una conferma della mia ipotesi che il sardo costituisca per i maschi una sorta di “linguaggio iniziatico”, usato percontraddistinguere il gruppo dei pari (Sardegna tra tante lingue:52). Per me è stato facile arrivare a formulare questa ipotesi, visto che il gruppo dei pari è stata per me la scuola impropria in cui ho appreso il sardo.

” Piuttosto si può ipotizzare una tacita socializzazione di genere esercitata anche dalla scuola, in un periodo cruciale di formazione dell’identità, che può riguardare anche i codici linguistici oltre che le posture, la disciplina, in generale “le buone maniere” molto più richieste alle bambine che ai coetanei dell’altro sesso. E delle buone maniere probabilmente fa parte anche l’usare l’italiano piuttosto che i dialetti. Per i ragazzi la situazione è parzialmente diversa poiché alcune indicazioni provenienti da altre ricerche (Bolognesi, cit.) non solo ci dicono che ad essi viene richiesta meno disciplina ma, in fatto di codici linguistici, l’uso delle varianti locali con i compagni di scuola sembrerebbe facilmente accettato. Queste differenze adolescenziali piuttosto che infantili contribuirebbero in parte a spiegare i comportamenti linguistici delle donne adulte che abbiamo discusso in precedenza.
Il trascorrere dell’età e/o il passaggio da una classe scolastica all’altra non solo aumenta la competenza attiva nelle lingue locali di entrambi i sessi ma, almeno nel caso delle bambine si incrementa anche la competenza passiva che passa dal 25,8% delle prime classi elementari al 40% della terza media. In terza media chi si dichiara del tutto incompetente nelle lingue locali è solo il 9,1% dei maschi. Chi non conosce per nulla le lingue locali, qualunque sia la sua età anagrafica, attribuisce questa ignoranza al fatto che in famiglia non si parla dialetto (il 76,6%) e secondariamente al fatto che i propri genitori non sono sardi (il 17%) ma vi è anche qualche osservazione sul fatto che “il dialetto serve a poco”. Coloro che si dichiarano competenti attivi nelle lingue locali sostengono, comunque, in maggioranza, che la fonte del loro sapere è situata in famiglia, con ruoli particolarmente importanti attribuiti ai padri e alle nonne, in particolare da parte dai maschi. Altre figure parentali sembrano aver contribuito alla conoscenza ma in posizioni decrescenti. Anche i compagni di giochi o i compagni di scuola non sembrano assumere una grande rilevanza anche se, come si è visto nel campione degli adulti, questi assumono una certa importanza quale fonte alternativa di apprendimento se non vi è stata trasmissione familiare.” (Le lingue dei Sardi: 38-39)

Ecco risolto il mistero degli “informatori bugiardi”, e usando esclusivamente dati e interpretazioni dei dati presenti nella medesima ricerca sociolinguistica alla quale ha collaborato il Prof. Giovanni Lupinu.

A questo punto, però, bisogna anche constatare che i dubbi del Prof. Lupinu sono utili per mettere in luce un altro problema legato all’apprendimento “improprio”  del sardo dai parte dei giovani. Al contrario di quello che è successo ai pochi parlanti della mia generazione, che hanno appreso il sardo dal gruppo dei pari e non in famiglia, i giovani di oggi lo apprendono  in molti casi da altri giovani che ugualmente non lo hanno appreso in famiglia e che in effetti, come loro stessi, hanno appreso l’italiano come prima lingua.

Da una serie di osservazioni non sistematiche, ho potuto rendermi conto che spesso il sardo di questi giovani è molto “sgrammaticato” e pieni di interferenze anche lessicali dall’italiano.

È quindi fondamentale in questo momento che il sardo venga finalmente insegnato nelle scuole e per motivi che ormai non sono più solo di prestigio e di innalzamento dello status della limba, ma proprio per poter permettere ai giovani di avere una corretta competenza del sardo a tutti i livelli: sintattico, morfologico, fonologico, lessicale e pragmatico.

I giovani devono imparare a formulare e pronunciare correttamente il sardo e ad usarlo in modo socialmente adeguato a qualsiasi situazione.

I dubbi del Prof. Lupinu, quindi, si rivelano in fondo giustificati, se con questo si intende dubitare del corretto apprendimento del sardo da parte di tutti coloro che dichiarano di averne una competenza attiva.

Ecco perché è di fondamentale importanza che ad insegnare ilo sardo nelle scuole siano dei docenti di madre lingua, formatisi in corsi tenuti in sardo, in modo che essi stessi possano addestrarsi ad un uso formale e prestigioso della limba.

Non va assolutamente ripetuto l’errore compiuto nel passato di tenere dei corsi sul sardo, ma in italiano.

Quel modo di operare riflette l’eterno monolinguismo isterico degli Italiani–fatto proprio dalle università italiane di Sardegna–e che ha come conseguenza che gli studenti di lingue non imparano mai a parlare effettivamente la lingua studiata.

Gli insegnanti di sardo devono essere tutti dei parlanti nativi–o seminativi–per i quali è naturale esprimersi in sardo e in grado quindi di rendere partecipi i discenti del semplice fatto che il sardo è e deve essere sempre di più una lingua normale, in cui si può fare qualsiasi cosa.

2 Comments to “Chi deve insegnare il sardo”

  1. quella dei parlanti seminativi è troppo toga

Leave a comment