Il pudore di Maninchedda

maninchedda

“io non parlo mai di lingua come non mostro mai la mia famiglia. Il motivo è semplice: vorrei preservare un angolo di privato dove esisto a prescindere dal ruolo pubblico).” (http://www.sardegnaeliberta.it/olbia-cagliari-carbonia-ret…/)

Quando leggi una frase pretestuosa come questa–e ce ne vuole di classe, ma in sardu si narat “faci de sola”, per concepirla!–la prima cosa che ti viene in mente è qualcosa come:

“Non tutte le lasagne vengono col buco!”

Una frase che assomiglia a qualcosa dotato di significato, ma che invece non vuol dire proprio una mazza.

Non c’è proprio più niente da fare per Maninchedda.

Ormai usa la sua intelligenza solo per scrivere  contos de foghile sul suo blog, storie fantasy sul suo indipendentismo e sullo stato che starebbe costruendo, con il suo consulente che imita Edmondo De Amicis.

A Paolo della lingua forse non gliene importa una mazza o forse il fatto che stia scomparendo gli sta solo bene.

Quale delle due opzioni sia giusta lo sa lui.

In ogni caso, quello che si capisce dalle parole buttate lì senza pensarci troppo–comprensibilmente–viene fuori che concepisce la questione linguistica come una questione privata, intima.

E questo da parte di un filologo che è anche un politico.

La lingua: fenomeno sociale principe, ridotto a faccenda privata.

Mi viene in mente l’immagine di Maninchedda che si aggira per casa sua in mutande e parla in sardo di nascosto, da solo ovviamente.

O chiuso nel bagno, sotto la doccia.

Hmmm, sotto la doccia canta a squarciagola Non potho reposare.

A proposito, questa canzonetta melensa e disgustosamente piccolo borghese, della borghesia infima degli inizi del secolo scorso, è proprio l’inno adatto al loro partito: Il Partito dei Tardi.

Brutta, melensa, falsamente sentimentale, in un sardo reso improbabile dalle miriadi di italianismi e con un waltzer come musica.

Inno perfetto per questi indipendentisti all’amatriciana.

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