A quanto pare non vi piace sentirvi dire che ancora ci stiamo autocolonizzando.
Pochissime visite al blog e pochissimi “mi piace” su FB per il post di ieri.
Eppure ho soltanto detto come stanno le cose.
Se per i nostri genitori–i miei cresciuti sotto il fascismo–era comprensibile, inevitavile pensare all’Italia come a qualcosa di infinitamente superiore alla piccola Sardegna materialmente e culturalmente stracciona–rileggetevi Le Lannou: “Questo popolo di razza piccola è sottoalimentato”–per la mia generazione già non lo è più.
Avevo 16 anni nel ’68 e come tanti ho imparato a non fidarmi più dell’informazione del regime: qualunque regime.
Non è quindi un caso che a far partire il movimento per la lingua non siano stati i vecchi sardisti del PSdAz, ma i giovani di Su Populu Sardu, tutti più o meno segnati dal ’68.
E chi non lo è stato si faccia pure sentire, così posso correggere la mia analisi.
La responsabilità del fatto che il movimento per la lingua non si sia in questi 40 anni trasformato in un movimento di massa ricade interamente sugli individui della mia generazione e di quelle successive.
Ma le responsabilità vanno anche suddivise in modo diverso tra le diverse generazioni.
I giovani di adesso si stanno formando in una situazione di ricchezza culturale e di informazione che non ha paragoni, non dico rispetto a quella dei miei genitori, ma neppure rispetto alla mia generazione.
Le nuove generazioni non posso non sapere che l’Italia, come modello da seguire per acculturarci, è il più scalcagnato che potesse capitarci.
In testa alle classifiche per la corruzione, la poca libertà di informazione, la diffusione della criminalità organizzata, la violazione dei diritti civili delle minoranze, le stragi, oltretutto impunite, l’ Italia era fino a ieri governata da un personaggio che tutti gli scrittori di satira del mondo rimpiangono, l’Italia è ancora ininterrottamente occupata dai partiti dal lontano 1922 e dalla fine della guerra, di fatto, un protettorato del Regno Vaticano.
L’Italia che, se è cambiata negli ultimi decenni, è cambiata in peggio (Falcone, Grillo, Mussolini, Capaci, Brindisi, Napolitano che piange e quella strana sensazione di déjà vu. Con l’Italia di nuovo in balìa degli eventi).
Eppure la stragrande maggioranza dei Sardi non sembra mettere in discussione quel modello culturale.
Unici tra tutte le grandi minoranze in Europa, i Sardi non sentono la necessità di esprimere in modo massiccio e diffuso la propria alterità e, molto peggio, non sentono il bisogno di esprimere il rifiuto di una cultura antropologica sanguinolenta e purulenta come quella italiana. Se il termine “sanguinolenta” vi sembra esagerato, andatevi a cercare il conto dei morti ammazzati per mafia, camorra, ‘ndrangheta che ha fatto Enrico Deaglio. Deve esistere da qualche parte, perché gliel’ho sentito fare in televisione molti anni fa. Siamo nell’ordine delle decine di migliaia.
Questo comportamento dei Sardi è, per un Sardo che da 30 anni vive in Olanda, assolutamente incomprensibile.
I Sardi si dicono fieri di essere Sardi–e non vedo proprio di cosa dovrei essere fiero, visto che non ho fatto niente per esserlo. E la fierezza è un sentimento difensivo–mentre dovrebbero essere fieri di non essere Italiani. E questo non vuol dire, ovviamente, negare le enormi differenze che esistono tra gli “Italiani”, ma significa ammettere che gli Italiani che rispetto sono una minoranza incapace di far cambiare rotta al paese: leggetevi le analisi dei politologi dopo queste ultime elezioni.
I Sardi che per il 40% sarebbero indipendentisti e per il 48% sovranisti (cherta universitària) non sentono poi il bisogno di esprimere la propria diversità nei confronti del Bel Paese.
E soprattutto non sentono il bisogno di esprimerlo nel modo che sarebbe più naturale: attraverso il rifiuto dell’elemento cardine di ciascuna cultura, la sua lingua.
E adesso già li sento i nostri indipendentisti all’amatriciane rimproverarmi di usare io stesso l’italiano, in questo testo.
Vero!
Ma c’è un motivo: il numero di viste al blog raddoppia quando scrivo in italiano e questo post è proprio rivolto a voi, che avete fatto dell’italiano la vostra lingua.
Se il nostro 88% di nostri indipendentisti e sovranisti non si sentono Italiani, perché parlano in italiano anche quando non ce ne sarebbe bisogno?
Eppure noi intellettuali impegnati la nostra parte per liberare il sardo dal ghetto l’abbiamo fatta: Sa Die de sa Sardigna.
Oggi si può parlare in Sardo anche di linguistica, per dirne una.
Qualcuno si starà chiedendo qual’è lo scopo di questa mia menata un po’ moralistica.
È ora di cambiare strategia.
Finora tutto quello che è stato fatto per il sardo è stato fatto partendo da un punto di vista difensivo: la tutela del sardo.
Io ritengo che questa strategia difensiva abbia già dato tutti i suoi frutti.
Abbiamo ottenuto molto, soprattutto se confrontato al niente di quando abbiamo cominciato.
Ma non siamo riusciti a rivitalizzare il sardo.
La situazione della trasmissione generazionale è disastrosa.
Se è vero che i giovani (maschi) apprendono ancora il sardo dal gruppo dei pari (i coetanei), è anche vero che il sardo che apprendono è presumibilmente influenzato in modo massiccio dall’italiano. Si vedano i commenti al mio post I Sardi parlano tutti l’italiano? e anche l’altro post Come parlano i sardi?
Vedo con apprensione come sbocco di questa strategia difensiva–e sempre che abbia successo–la vittoria di Pirro ottenuta dagli Irlandesi.
Vedo il sardo insegnato a scuola–e studiato de mala gana dai ragazzi–e completamente scomparso dalla vita dei sardi.
Per rivitalizzare il sardo non basta vincere la battaglia politica con le istituzioni–e vendicarci delle umiliazioni passate–ma occorre vincere la battaglia culturale per far tornare il sardo alla condizione di lingua normale.
Giudico perciò gravissime le posizioni di vari esponenti di ProgReS, che teorizzano per la Sardegna la soluzione irlandese; indipendenza statuale e continuazione della colonizzazione culturale.
Le giudico gravissime perché potrebbero essere espressione del disorientamento linguistico di almeno una parte delle giovani generazioni.
Insomma, quelli che dicono: “Io non parlo in sardo perché a casa mia si parlava italiano”.
L’italianizzazione culturale di queste persone è andata talmente avanti che hanno assorbito perfino uno degli aspetti più miserevoli e miserabili della cultura italiana: il monolinguismo isterico.
Queste persone non si rendono conto di avere il dovere morale, civico, di imparare il sardo: non fosse altro che per permettere a me di parlare in sardo con loro.
Queste persone rivendicano il proprio “diritto” al monologuismo e negano il mio diritto al plurilinguismo.
Finora a questo gioco ci abbiamo giocato tutti e quest’articolo in italiano ne è una dimostrazione.
Quante volte non abbiamo detto: “Parlo in italiano, perché c’è qualcuno che non capisce il sardo”?
È successo perfino che, ancora pochi anni fa, Cristina Lavino protestasse a una conferenza regionale sulla lingua perché io e altri abbiamo parlato in sardo.
Ma è arrivato il momento di ribaltare il gioco: sono i monolingui isterici a negare i nostri diritti linguistici.
Prendiamoci il nostro diritto e usiamo il sardo anche nelle situazioni che norme sociali frutto del colonialismo culturale–e dell’autocolonialimo–giudicano non adatte.
Usiamo il sardo con gli sconosciuti, con le donne, con i bambini nostri e altrui.
Come per gli omosessuali è ora di uscire allo scoperto.
Fuori dal ghetto e dentro la società.
Fieri, non di essere Sardi, ma di non essere Italiani!