Ale Sestu mi ha scritto:
”
Dr. Bolognesi
eccomi qui
io sono quello che lei ha inquadrato tra gli “abbiamo altro a cui pensare”.
Provo a rispondere alle domande che mi ha posto, anche se trovo davvero difficile riuscire a capirci. Credo perché partiamo da due punti di vista opposti: lei parte dall’idea di identità, e da li organizza il ragionamento. Per me invece l’identità non esiste. Ne deduce quindi che, per me, la lingua, non può essere espressione di identità. Per me la lingua è espressione culturale (nel senso letterario e poetico) e sociale, e in quanto tale va salvaguardata e valorizzata.
Legare la lingua all’economia è fuorviante: possiamo prendere coscienza di noi anche senza usare il sardo. Basta renderci conto che l’industria pesante non ha futuro, e pianificare uno sviluppo economico diverso, anche parlando in italiano.
Questo sviluppo economico diverso, per me, deve puntare prima di tutto sul risparmio (energetico, alimentare, dei rifiuti) e poi sul potenziamento del settore agroalimentare, caseario, vittivinicolo. Si potrebbe puntare anche sul settore informatico e sulla ricerca tecnologica/informatica. Poi il turismo, organizzato in modo tale da essere attrattivi tutto l’anno, su tutto il territorio (non solo sulle coste).
Mi chiede “Perché è nata l’Alcoa e invece non si sono investiti tutti quei soldi per razionalizzare il settore agro-alimentare rendendolo concorrenziale?”
Non conosco bene la vicenda (quando è nata l’alcoa io non ero ancora nato), ma credo per scarsa visione politica. Il punto è che adesso l’alcoa esiste, e maledire il passato non serve a niente. Dobbiamo inventarci una soluzione per tenere in piedi l’economia di quell’area.
“Perché si è scelto di investire in settori in cui il rapporto tra capitale investito e posti di lavoro è abnorme?” Idem come sopra: scarsa visione politica. Beninteso: se quei politici avessero parlato in sardo, avrebbero fatto le stesse cazzate, però in sardo. E la situazione sarebbe la stessa. Contano le persone, non la lingua che usano.
Lei si lamenta molto del fatto che la lirica prende 10 volte quello che viene stanziato per la lingua. Sono d’accordo con lei: la lingua dovrebbe essere sostenuta più della lirica. Io sono stato presidente di un’associazione culturale (la Jan palach) che ha sempre sostenuto (tra le altre cose) l’importanza della salvaguardia della lingua. Lo sa quanto viene stanziato per le associazioni culturali come la mia ? Niente.
Credo che un grosso limite, che si oppone al riconoscimento ufficiale e al sostegno del sardo, sia proprio il suo ragionamento: legare la lingua al concetto di nazionalismo e di indipendentismo, per me, ne costituisce la sua rovina, e sarà il motivo per cui si estinguerà. Per le nuove generazioni quei concetti sono vecchi e fuori dalla realtà, e lo saranno sempre di più.”
Prendiamo il nucleo del discorso di Ale Sestu: “Legare la lingua all’economia è fuorviante: possiamo prendere coscienza di noi anche senza usare il sardo. Basta renderci conto che l’industria pesante non ha futuro, e pianificare uno sviluppo economico diverso, anche parlando in italiano.”
Eccolo qui il problema di una parte–chissà quanto grande–delle nuove generazioni: l’illusione di poter prendere coscienza di noi anche senza usare il sardo.
L’illusione di vivere esclusivamente in un eterno presente: Sardegna come Alzheimer
E questo la dice lunga sul grado di coscienza che Ale Sestu ha di se. Non credo che direbbe la stessa cosa rispetto all’italiano.
Eccolo qui il nucleo di ciò che costituisce l’alienazione dei Sardi alienati: l’incoscienza del proprio passato, quel passato sardo rimosso, censurato, distrutto–nella peggiore delle ipotesi–dalla colonizzazione culturale italiana. Oddío, è vero che qui ci sono in gioco meccanismi molto più generali e l’illusione di vivere in un eterno presente è comune a tutte le giovani generazioni dell’occidente.
Eppure non occorre essere filosofi per capire che viviamo in effetti esclusivamente nel passato.
Nel momento stesso in cui hai finito di pronunciare la parola “Adesso”, questa già appartiene al passato e solo il ricordo dell’averla pronunciata ti permette di darle un senso nell’attimo provvisorio del presente.
Noi siamo fatti del nostro passato e non solo del nostro.
Siamo fatti anche del passato dei nostri genitori e dei loro avi.
Nel momento in cui ci privano del nostro passato, ci privano del nostro presente–che consiste del ricordo del passato–e perciò del nostro futuro, visto che per sapere dove andrai, devi prima sapere dove sei.
Senza passato non c’è futuro.
Ecco perché per l’Italia è così importante distruggere il passato dei Sardi: compresa la scrittura “nuragica”.
Ecco perché, per la scuola italiana, la storia comincia in Egitto, ma poi, passando per la Grecia, arriva a Roma, senza mai passare per la Sardegna.
E i nuraghi sono i “misteriosi nuraghi”.
I Sardi non hanno lingua e non hanno storia.
I Sardi non devono avere un passato, perché il passato è quello che determina la tua percezione del presente, cioè quello che sei nel presente.
Ale Sestu dice: “Il punto è che adesso l’alcoa esiste, e maledire il passato non serve a niente. ”
Maledire il passato non serve a niente, ma comprenderlo serve a comprendere il presente.
L’Alcoa (ALSAR) nasce dalla negazione del passato, dall’illusione di poter cominciare tutto dal niente, senza tener conto di ciò che sei, cioè da dove vieni.
E i Sardi, che allora hanno approvato il progetto colonialistico di insediare a Portovesme un’industria altamente inquinante che non aveva niente a che fare con la storia della zona, vivevano nella stessa illusione di Ale Sestu di poter prescindere dal proprio passato, cioè da quello che sei.
I Sardi che hanno approvato il progetto del polo di Portovesme erano colonizzati e coglionizzati.
Chi il progetto gliel’ha rifilato sapeva cosa stava facendo.
Come mi ha detto Mialinu Pira l’unica volta che ci siamo incontrati–e abbiamo immediatamente bisticciato–“Chi sa di più ha il potere.”
Quei Sardi che hanno accettato il polo di Portovesme erano convinti che i loro colonizzatori sapessero di più e questo bastava a fidarsi di loro.
Era anche vero: quelli sapevano di più, ma si guardavano bene dal raccontare tutto a quei poveri coglioni di Sardi.
Io–perito chimico–sapevo che il carbone di Seruci era “zolfo con un basso tenore di carbonio”, cioè inutilizzabile per le centrali elettriche di Portovesme. L’abbiamo imparato a scuola e questo vuol dire che lo sapevano tutti.
La bauxite–a proposito: che fine ha fatto la bauxite di Olmedo? Già esaurita?–veniva esattamente dall’altra parte del pianeta: l’Australia.
La produzione di alluminio è una delle attività industriali più costose dal punto di vista energetico, anche senza tener conto del trasporto della bauxite dall’Australia. L’alluminio si ottiene dall’elettrolisi dell’allumina (ossido di alluminio) fusa in forni elettrici. E l’elettrolisi in sé consuma un oceano di energia elettrica.
Già dopo la prima crisi energetica del 1973, era chiaro che sia Portovesme che tutto il settore petrolchimico non avevano futuro: i paesi produttori di petrolio avevano deciso di non lasciarsi più trattare come la Sardegna.
E tutto il “Piano di Rinascita” era basato sullo sfruttamento di quei paesi e della Sardegna.
Solo la Sardegna non è riuscita a cambiare indirizzo economico e siamo ancora qui a discutere dell’Alcoa, mentre l’Alcoa non dovrebbe nemmeno esistere.
Siamo ancora qui a discutere di Ottana, mentre tutti sappiamo che Ottana è sorta “per minare alla base l’economia che produceva il banditismo sardo”.
Siamo tutti qui a constatare il fallimento dell’economia coloniale sarda, frutto della colonizzazione culturale della Sardegna.
E siamo ancora qui a spiegare che il fallimento economico è il risultato della negazione, da parte della classe dirigente sarda di destra come di sinistra, della realtà della Sardegna.
Una realtà fatta di gente che di chimica non ne sapeva una mazza, per cui i tecnici bisognava importarli dall’Italia.
Basti sapere che durante il mio unico incontro con Pira, abbiamo immediatamente litigato, perché Pira non voleva capire che quel tipo di industria comportava prezzi enormi dal punto di vista ambientale. Lui–che non sapeva che io fossi un perito chimico–mi accusava di volere la “chimica di Lodé”, la chimica del sughero al posto della plastica.
Perfino Pira…
La strada della decolonizzazione è lunga e tortuosa.
Bisogna prima lasciarsi inquinare–in tutti i sensi–prima di capire quanto valeva quello che hai ricevuto in eredità da “is antigus”.
Pira–da umanista–non capiva le conseguenze della chimica, né avrebbe potuto capirle.
Io le capivo perché ero già “inquinato” da quella cultura.
Siamo quindi lontani mille miglia dall’idea di sardità = arretratezza.
Quando sono andato via dalla sala, a Iglesias, in cui Pira aveva presentato la “Rivolta dell’Oggetto”, io e lui ci siamo scambiati uno sguardo.
Io mi considero un suo erede, ma…avevo ragione io.
Ale Sestu, 35 anni dopo, commette lo stesso errore e sul blog di Biolchini scrive: “In effetti potrei cimentarmi nella medicina tradizionale sarda: la prossima volta che le viene il raffreddore mi chiami e organizziamo un bel brodone di erbe campestri !”
La stessa identificazione tra sardità e arretratezza.
Ale Sestu non riesce a concepire un modo attuale di essere sardo.
Quelli come Ale Sestu–e sono tanti–non riusciranno mai a concepire un’economia sarda che parta dalle nostre risorse ambientali e umane per arrivare a soddisfare le NOSTRE esigenze.
Ecco a cosa serve la decolonizzazione culturale: a formare giovani che pensano da Sardi ai nostri problemi economici, politici e sociali.
E come i miei lettori sanno già, le seguenti parole di Ale Sestu sono assolutamente fuori luogo: “Credo che un grosso limite, che si oppone al riconoscimento ufficiale e al sostegno del sardo, sia proprio il suo ragionamento: legare la lingua al concetto di nazionalismo e di indipendentismo, per me, ne costituisce la sua rovina, e sarà il motivo per cui si estinguerà. Per le nuove generazioni quei concetti sono vecchi e fuori dalla realtà, e lo saranno sempre di più.”
Io sono iscritto al Partito Socialista olandese, ma stando alla ricerca effettuata dalle università di Edinburgo e di Cagliari, i giovani sardi sono in maggioranza a favore di una Sardegna indipendente o almeno “sovrana”.