Le bufale, come sapeva bene Joseph Göbbels, quando vengono ripetute un numero sufficiente di volte, diventano verità condivise, almeno fino a quando qualcuno non le affronta con metodo scientifico.
Una di queste “verità”, ripetuta da quasi tutti quelli che si sono occupati di sardo, riguarda la pretesa toscanizzazione del sardo meridionale, che sarebbe avvenuta nel Medioevo, a partire dalla caduta del Regno di Cagliari nelle mani della repubblica di Pisa, nel 1258.
Cito la sociolinguista francese Emmanuelle Andre (1997:37) per esemplificare il modo in cui il luogo comune sull’influenza sulla fonologia del sardo da parte delle lingue dominanti viene riprodotto in lavori che si limitano a consultare le fonti standard sulla storia linguistica del sardo: «In effetti, le dominazioni di Pisa e di Genova provocano la pluralizzazione delle varietà del sardo. Si distinguono essenzialmente il “logudorese-nuorese” al centro dell’isola e il campidanese al sud. Quest’ultimo ha subito un’evoluzione fonetica, morfologica e lessicale, che tende a differenziare le une varietà dalle altre seguendo l’influenza linguistica alla quale è stata sottoposta. Così, il sud è stato condizionato fortemente da Pisa».
Le affermazioni di Andre si basano su Blasco Ferrer (1984), il quale a sua volta si rifà a Wagner (1932). Per quanto riguarda lo studioso tedesco bisogna dire che egli aveva concepito questa visione della variazione linguistica nell’area sarda ben prima di avere l’opportunità di studiare a fondo il problema.
Per Max Leopold Wagner, che scriveva nel 1908, dopo una prima e breve visita della Sardegna, il concetto di “purezza della lingua” era strettamente connesso a quello di “purezza della razza”: «Il Sardo dei monti è un tipo del tutto diverso dal suo fratello della pianura. Mentre questo è di statura piccola, colorito pallido, carattere servile e tradisce chiaramente l’impronta spagnola, il Sardo delle montagne è alto, il sangue gli si gonfia e ribolle nelle vene. È attaccato alla sua vita libera e indomita a contatto con la natura selvaggia. Egli disprezza il Sardo del Meridione, il “Maureddu”, come nel Nuorese vengono chiamati gli abitanti della pianura. È fuori di dubbio che in queste montagne l’antica razza sarda si sia conservata molto più pura che nella pianura, continuamente sommersa dai nuovi invasori. Anche la lingua è la più bella e la più pura; è un dialetto armonioso e virile, con bei resti latini antichi ed una sintassi arcaica, quello che sopravvive in questi monti con sfumature varianti da un villaggio all’altro».
Ma Wagner stesso non ha neppure il merito di essere l’autore della bufala: si limita a riprenderla da un altro autore: il canonico Giovanni Spano, autore del Vocabolario Sardo-Italiano (1851-52) e unica sua fonte sul sardo: “Pisani e Genovesi come intaccarono il nazionale governo, ci guastaron pure la unità di lingua. [Gli Spagnoli, invece, …] “ molto la bruttarono nelle parti meridionali da formare quasi un distinto dialetto”. (https://books.google.nl/books?id=KA49AAAAYAAJ&dq=canonico+spanu&printsec=frontcover&source=bl&ots=_cQd_p0DPr&sig=Qur4KUdkbqjkKO-kRksmS-MDpxQ&hl=nl&ei=qGDdSvmdLMrz-Qbmmfky&sa=X&oi=book_result&ct=result#v=onepage&q&f=false).
Il canonico è stato un pioniere degli studi sardi, oltre che un parlante del sardo settentrionale, che lui stesso elegge a “Ortografia sarda nazionale, ossia grammatica della lingua loguderese paragonata all’italiana (1840)” (https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Spano), e non aveva a disposizione nemmeno uno degli strumenti della linguistica—allora in fasce—come si capisce dal passaggio seguente, presente nella presentazione del vocabolario effettuata dal suo editore: “ Tra le otto famiglie di dialetti che originarono la lingua italiana, havvene due che alla nostra isola si appartengono, la Sarda e la Sicula, parlata la prima nelle parti meridionali e centrali, la seconda nelle parti settentrionali.”
La lingua sarda che da origine a quella italiana e il sassarese-gallurese definiti siculi non hanno bisogno di commenti.
Siamo in pieno Risorgimento, cosiddetto, e tutti devono essere sempre stati Italiani, no?
E neppure lo stesso Spanu è stato originale nel proporre la suddivisione del sardo in due varietà:
“La percezione tradizionale dei dialetti sardi viene registrata nel Settecento dal naturalista Francesco Cetti nell’introduzione ai Quadrupedi di Sardegna [1774, ora in Cetti 2000: 70]. Il Cetti linguista è stato segnalato per la prima volta in Lőrinczi [1993]. Per Cetti il complesso linguistico sardo si divide nel dialetto del Capo di Sopra (detto anche Capo di Sassari) e in quello del Capo di Sotto (o del Capo di Cagliari), cioè il campidanese in senso lato. Egli fornisce anche le principali ‘isoglosse’ in base alle quali si operano (tradizionalmente?) tali distinzioni: l’articolo determinativo plurale is del campidanese è indifferente ai generi, mentre i dialetti del Capo di sopra oppongono sos~sas; in secondo luogo, alla desinenza -ai dell’infinito campidanese corrisponde -are nel Capo di sopra; a queste differenze se ne potrebbero aggiungere altre “di parole, e di pronunzia” [per altre annotazioni fatte dal Cetti ‘linguista’ v. Lőrinczi 1993, ma soprattutto il Cetti stesso, recentemente ripubblicato]”. (http://people.unica.it/mlorinczi/files/2007/04/5-sappada2000-2001.pdf)
Il naturalista Francesco Cetti, sbarcato in Sardegna nel 1765, con lo scopo di studiare la fauna dell’isola, definisce la situazione nel modo seguente: «Si divide pure questo continente in parte meridionale, e in parte settentrionale con altri nomi, chiamando la parte meridionale Capo di sotto, e la settentrionale Capo di sopra. […]
Come si può vedere, Cetti ha il problema “pratico” (amministrativo?) di dividere la Sardegna in due parti uguali, basandosi, per esempio, sull’orografia, visto che essa lo era amministrativamente dai tempi del precedente dominio spagnolo. Ben conscio del fatto che una tale suddivisione era arbitraria, decide comunque di effettuarla. […] A questo punto, e in modo ancora più sommario, Cetti decide anche di suddividere la lingua nazionale della Sardegna in due varietà che, a questo punto necessariamente, devono corrispondere alla suddivisione dell’isola in due capi: «Nella lingua propriamente sarda il fondo principale è italiano; vi si mischia il latino nelle desinenze, e nelle voci; vi è pure una forte dose di castigliano, un sentor di greco, un miscolin di franzese, altrettanto di tedesco, e finalmente voci non riferibili ad altro linguaggio, che io sappia. Voci prettamente latine sono Deus, tempus, est, homine, ecc.; latine sono le desinenze in at, et, it, us, nella coniugazione dei verbi; dicono meritat, devet, consistit, dimandamus. Parole castigliane sono preguntare, callare, querrer ecc.; e castigliane sono le deninenze in os, peccados, santos, ecc. Le terminazioni in es, dolores, peccadores, ecc. rimane libero ad ognuno avere per latine, o per castigliane. Il sapor di greco lo pretendono alcuni sentire negli articoli su, sos, is; e dicendo berbegue per pecora, non pare questo un poco del brebis franzese? E dicendo si sezer per sedersi, non ha questo l’odore del sich sezen tedesco? Como per adesso, petta per carne, e altri vocaboli non so che sieno analogi per altre lingue. Due dialetti principali si distinguono nella medesima lingua sarda; ciò sono il campidanese, e ‘l dialetto del Capo di sopra. Le principali differenze sono, che il campidanese ha in plurale l’articolo tanto maschile quanto femminile is e ‘l Capo di sopra dice in vece sos e sas; inoltre il campidanese termina in ai tutti i verbi che il Capo di sopra finisce in are, non senza altre differenze di parole, e di pronuntzia.» (Cetti, 2000:69-70)
Il livello delle fonti è questo—fonti all’oscuro di qualsiasi rudimento di linguistica—e il gioco delle citazioni delle “autorità”, senza verificarne le affermazioni, ci ha portato all’attuale pagina di Wikipedia: “In seguito alla scomparsa del giudicato di Cagliari e di quello Gallura nella seconda metà del XIII secolo, negli ex-territori giudicali caduti sotto il dominio dei della Gherardesca e della Repubblica di Pisa si ebbe un considerevole processo di toscanizzazione della lingua locale che, secondo il linguista Eduardo Blasco Ferrer, causò una prima frammentazione del sardo, prima di allora fortemente omogeneo.”
Insomma ci arisiamo: Wikipedia che cita Blasco che cita Wagner che cita Spanu e nessuno che verifichi. (https://it.wikipedia.org/wiki/Lingua_sarda)
Passiamo allora a verificare le affermazioni contenute nelle fonti tradizionali e riprese dai loro acritici seguaci.
Faccio copia-e-incolla dal mio libro Sardegna fra tante lingue (Condaghes, 2005).
Un’analisi dei fenomeni fonetici del sardo meridionale, attribuiti da Blasco Ferrer (1984) al contatto con il pisano, permette di verificare ulteriormente fino a che punto i luoghi comuni hanno influenzato la ricerca linguistica sul sardo. I fenomeni fonetici indicati da Blasco Ferrer (1984) sono i seguenti:
a) sonorizzazione delle sorde intervocaliche (pag. 71);
b) mancata labializzazione dei nessi KW e GW (pag. 135);
c) palatalizzazione delle occlusive velari davanti alle vocali E e I (pag. 135);
d) in camp. la sibilante /s/ in posizione postconsonantica diventa affricata come in toscano, it. mer. e romanesco antico /fórtse/ <forse> (pag. 135)
e) il dittongo AU monottonga a /o/ come in toscano (pag. 136).
Sonorizzazione delle sorde intervocaliche
La scelta di questo fenomeno per esemplificare l’influsso alloglotto sulla fonologia del sardo ci lascia perplessi, visto che esso non è affatto presente nel toscano (sardo: muδu, pagu, saβa ~ fiorentino: muϴo, poho, saɸa ~ italiano: muto, poco, sapa), mentre è attestato già nella Carta Volgare del Giudice Torchitorio (1070-1080), primo documento in sardo, antecedente alla dominazione pisana di circa due secoli.
Il fenomeno che Blasco Ferrer etichetta come “sonorizzazione” consiste, in effetti, nei dialetti sardi in cui è presente, oltre che nella sonorizzazione, anche nella spirantizzazione delle plosive sorde: il fenomeno si definisce tradizionalmente come lenizione. Come è noto, la spirantizzazione presente nel toscano moderno (Gorgia toscana) non prevede la sonorizzazione delle consonanti sorde (es. muϴo, poho, saɸa). Inoltre, neanche la spirantizzazione del sardo può in alcun modo essere attribuita al contatto con il toscano. L’attestazione della rappresentazione grafica della Gorgia toscana (sec. XVI, si veda Izzo 1972:8) è di molto posteriore all’attestazione della “sonorizzazione” nel sardo e alla fine della dominazione pisana in Sardegna1. A questo si aggiunga che nel pisano la Gorgia Toscana implica soltanto la spirantizzazione della /k/ a /h/, o la sua caduta (cfr. Izzo 1972:99), mentre nel sardo il fenomeno coinvolge tutte le occlusive sorde (plosive e spiranti). Quest’ultimo punto è cruciale anche perché indica che la Gorgia Toscana, a partire da Firenze, si è diffusa in modo diverso nei territori delle altre città toscane assoggettate nel corso dei secoli, raggiungendo parzialmente le zone più distanti, fra cui Pisa, e posteriormente al dominio pisano in Sardegna.
Come sostenuto da Giannelli & Savoia (1979-80): «È verosimile che questo processo di adeguamento alla pronuncia della Toscana centrale si collochi nel quadro della “pax fiorentina” imposta alla regione dopo il 1559». A questo va poi aggiunto il fatto che lo stesso Blasco Ferrer (1984:24), per motivi completamente oscuri, classifica lo stesso fenomeno fra quelli arcaici, per attribuirlo poi al pisano, alla pagina seguente, appoggiandosi a Wagner (1941).
Mancata labializzazione del nesso KW
La formulazione usata da Blasco Ferrer per descrivere il fenomeno è in effetti ambigua: «il nesso KW non si muta nella tipica bilabiale sarda» (es. AQUA > abba >ab(b)a ‘acqua’: centrosettentrionale). Questo mutamento non è “tipico” del sardo, ma dei dialetti centrosettentrionali, e in forma leggermente diversa è attestato anche nel rumeno (es. AQUA > apa). Inoltre, il mutamento è prodotto spesso dai bambini durante l’acquisizione dell’italiano (Mauro Scorretti, comunicazione personale). Questo fenomeno è solo uno dei tanti tratti ritenuti dai linguisti “tipici del sardo” che però non sono condivisi da tutti i suoi dialetti (cioè è presente solo in alcuni dialetti del sardo, ma non in altre lingue neolatine).
Quello che Blasco Ferrer forse evita di dire è esplicitamente affermato invece da Paulis (1996:36): «Alla luce di questi dati [riportati qui sotto], Wagner poté concludere che un tempo anche tutto il meridione aveva gli esiti labializzanti del Logudoro (qu > b(b) e sim.) e che la pronuncia akwa, ecc. insorse dapprima a Cagliari per imitazione di quella italiana durante la dominazione pisana. Dalla capitale l’innovazione si diffuse poi in tutta l’area meridionale, senza toccare tuttavia i termini del lessico contadino privi di corrispondenza in italiano, che conservano ancora oggi la vecchia articolazione».
La teoria del Wagner, ripresa da Paulis (1996), presenta una serie di problemi che la rendono implausibile. Innanzitutto, i due studiosi non presentano alcuna prova diretta del presunto passaggio del nesso KW a b(b) nel sardo meridionale. L’inversione del mutamento attestato nei dialetti centrosettentrionali viene semplicemente stipulata, ma non è documentata: «I documenti medievali provenienti dal meridione danno aqua, egua, esquilla, αχουα il più antico documento cagliaritano, la Carta in caratteri greci della fine del secolo XI» (cfr. Virdis 1988:901).
L’implausibilità dell’ipotesi di Wagner e Paulis deriva innanzi tutto dal fatto che questi studiosi non hanno tenuto conto della cronologia della presenza pisana a Cagliari.
Come abbiamo già visto il primo insediamento pisano a Cagliari risale al 1216-17, mentre l’effettiva conquista avviene nel 1258. Quest’implausibilità cronologica aumenta se si aggiunge che esistono motivi per supporre che il mutamento del nesso KW a b(b) sia nei dialetti centrosettentrionali un fenomeno tardivo, non ancora completamente assestato all’epoca della dominazione pisana del giudicato di Cagliari. Un documento proveniente dal settentrionale Giudicato di Torres (Libellum JudicumTurritanorum (cap. 2): scritto fra il 1255 e il 1287) riporta accanto al termine abba ‘acqua’, anche il termine aguaderi ‘bevitore d’acqua’ (cfr. Atzori & Sanna 1995:85).
Per ulteriori argomenti di carattere più tecnico, rimando a Sardegna fra tante lingue.
Palatalizzazione delle occlusive velari davanti alle vocali E e I
Problemi in gran parte identici a quelli appena visti presenta anche la questione della palatalizzazione delle velari nei dialetti meridionali.
Il mantenimento delle occlusive velari davanti alle vocali frontali E e I costituisce la caratteristica “arcaica” saliente dei dialetti centrosettentrionali. Questa conservazione è unica in tutta l’area romanza ed è affiancata solo da un pari trattamento subìto da questi segmenti nei prestiti latini entrati nelle lingue germaniche, nel basco, nel berbero ma anche, in modo parziale, nel dalmatico veglioto.
Rispetto alle varietà meridionali del sardo, Blasco Ferrer aderisce, anche in questo caso, alla tesi di Wagner (1941:111). Virdis (1978:46) in proposito scrive: «Diverse sono state le ipotesi riguardanti la palatalizzazione campidanese; ricordiamo che il Wagner (HLS 111) ascrive questo fenomeno all’influsso esercitato dai pisani sul Campidanese nel corso del loro dominio durante il medioevo, mentre l’antico campi danese avrebbe mantenuto anch’esso, come il Logudorese, gli originali suoni velari, e a suffragare questa ipotesi egli porta l’esempio di alcune parole che, non avendo corrispettivo toscano, hanno antenuto la velare: CITIUS > kítsi, CYTONEA > kid.òng’a. In realtà la εεquestione è meno semplice di quanto possa apparire».
Nuovamente vediamo che il meccanismo proposto per spiegare il mutamento fonologico è quello del prestito lessicale: le parole sarde contenenti le velari sarebbero state sostituite una per una dalle parole corrispondenti contenenti nello stesso contesto le palatali.
Quest’ipotesi è compatibile con la limitata presenza e influenza dei Pisani a Cagliari, la quale esclude un influsso più profondo sulla grammatica del sardo. Come affermato già da Virdis (1978:47): «Le obiezioni del Wagner il quale afferma, come già visto che alcune parole (kítsi, kid.òng’a) che non trovano corrispondente nel toscano, manterrebbero il suono velare, possono essere respinte sia perché vi sono tante altre parole che tale corrispondenza non hanno e che pure mostrano l’avvenuta palatalizzazione (basti pensare a c’ilív.ru, civ.ràz’u, addirittura a c’εa di probabile origine preromana = log.-nuor. kεa, kεja)».
L’ipotesi che la palatalizzazione possa essersi propagata nel sardo meridionale attraverso i prestiti lessicali dal pisano va quindi respinta. Il fenomeno è molto più diffuso di quanto quest’ipotesi preveda. Per una verifica basta consultare il dizionario sardo compilato da Mario Puddu (2000).
La palatalizzazione è quindi dovuta ad un mutamento grammaticale che ha lasciato poche eccezioni, una delle quali (ghettai ‘gettare’) presenta la velare addirittura proprio dove l’italiano presenta la palatale. Contemporaneamente va osservato che, se il fenomeno fosse comunque dovuto al contatto linguistico, cioè alla “contaminazione” della fonologia del sardo da parte di quella pisana, si prevederebbe un bilinguismo diffuso e prolungato che semplicemente non c’è stato: il dominio pisano è durato soltanto 80 anni.
Il fenomeno va quindi attribuito ad un’evoluzione interna al sistema fonologico del sardo meridionale.
Come osservato da Virdis la palatalizzazione nel sardo meridionale presenta aspetti diversi nelle diverse varietà diacroniche e diatopiche. In Ogliastra e nella Barbagia meridionale, per esempio, zone meno esposte ad eventuali contatti linguistici, la palatalizzazione è estesa anche a contesti che ne sono immuni nelle varietà del campi danese parlate a Cagliari e nelle zone limitrofe (cfr. Virdis 1978, Contini 1987, Blasco Ferrer 1988). Si può dunque essere d’accordo con Virdis (1978:47), il quale sostanzialmente accetta la tesi proposta da Guarnerio (1906), sulla base della grafia delle Carte Volgari Cagliaritane (1070-80), di considerare la palatalizzazione delle velari, in posizione intervocalica, già presente nel sardo meridionale un secolo e mezzo prima della presenza pisana a Cagliari.
L’evidenza a favore di questa tesi si può trovare in documenti oggi resi facilmente accessibili dalla loro pubblicazione in Atzori & Sanna (1995a). La distinzione grafica fra la plosiva velare (/k/) e la corrispondente affricata palatale (/t∫/) davanti alle vocali frontali del sardo meridionale è attestata, in termini in gran parte corrispondenti a quelli della pronuncia attuale, già nel periodo che va dal 1089 al 1130: (cfr. Tola, Codex, I, pp. 180-1, p 201: Atzori & Sanna 1995a: 63-66).
Gli ultimi due fenomeni non meritano neppure di essere presi in considerazione: si tratta di fenomeni comunissimi in tante altre lingue e motivati da elementari meccanismi fonetici che, evidentemente, i proponitori del contatto linguistico come spiegazione evidentemente ignorano.
Altrettanto evidente è che Wagner—giustificatamente—e Blasco Ferrer ignoravano completamente i moderni studi sul contatto linguistico.
Perché avvenga contatto fra due lingue, occorre un bilinguismo diffuso.
Le lingue entrano in contatto nella mente dei parlanti e non attraverso le vicende militari degli stati.