Se un linguista scrive un articolo senza troppo pretese–e usando il condizionale–sui possibili sviluppi dei ritrovamenti di Monti de Prama e quest’articolo passa le 5000 visualizzazioni in pochi giorni. vuol dire che ci sono migliaia di persone che hanno bisogno di sentire una campana differente da quella dell’archeologia ufficiale.
Questo può dispiacere–e, a quanto pare, dispiace–agli archeologi “ufficiali”, come dimostra l’intervento di Marcello Madau sul suo blog.
Madau è una persona civile e l’ha dimostrato prendendo apertamente le distanze–a quanto mi hanno riferito–dai sicari che si autodefiniscono “untori” (Su puntori ddis pighit!).
Marcello Madau è una persona civile e scrive cose condivisibilissime sull’interpretazione dei ritrovamenti di Monti de Prama: “Il fatto è che Mont’e Prama sta purtroppo funzionando per ‘coppie oppositive’: alla lettura storiografica italiana dominante, che ha ritenuto la Sardegna periferia mediterranea, si deve opporre il contrario: quindi se il colonialismo ha detto a lungo che la Sardegna nuragica era periferia non urbana del Mediterraneo, e ha sbagliato per scelta politica e incapacità di strumenti di lettura, dovremmo dire che la Sardegna era al centro ed era urbana, al di là delle evidenze?”
Come non essere d’accordo su quasi tutto?
Non ci si libera dalla cultura colonialista semplicemente ribaltandone i paradigmi, anzi!
Quello è il modo migliore per restarne prigionieri, anche se in modo speculare.
Sottoscrivo quindi pienamente anche il seguente passaggio di Madau: “Sono convinto che per riscrivere la storia della Sardegna non serva capovolgere i dati della sua negazione, ma fare ciò che il colonialismo non è stato in grado di fare: leggere e interpretare la storia delle differenze, i luoghi, le integrazioni, le discontinuità anche interne. Le vere ragioni economiche e sociali di dominio, resistenza, omologazione. Una via per l’autodeterminazione e l’indipendenza della Sardegna dove si cerchi di reimpostare la necessaria rilettura e riscrittura storica su tali criteri e attenzioni ci darà risultati migliori, e avrà maggiori possibilità di non ripetere in altre forme le semplificazioni e gli abusi ideologici e culturali del nazionalismo dominante.”
Ma mi rimane un dubbio: “Se è vero che non si può concludere affrettatamente che la Sardegna dei “nuragici” era “urbana”, è chiaro che è più che legittimo chiedersi se non lo fosse.
Esattamente quello che io ho fatto nel mio articolo, che comincia nel modo seguente: “Il condizionale è d’obbligo, come si dice, perché non ci sono ancora rilevazioni dirette, ma a Monti de Prama ci sarebbe una città, una città sarda.”
Questo passaggio del mio articolo deve essere sfuggito a Madau, che fra l’altro si guarda bene dal fare il mio nome, ma chiaramente a me si riferisce: confrontate le sue critiche con il mio articolo precedente.
Poi un altro punto in cui Madau non è stato preciso: come si può negare che la Sardegna fosse e sia ancora al centro del Mediterraneo occidentale?
Questo affermo io, infatti, e non altro.
A Madau, nella foga, deve essere scappata la mano.
La Sardegna era ed è al centro del Mediterraneo occidentale e dei suoi traffici: punto.
E Madau afferma anche: “Ma nell’isola non si realizzò, in maniera caratterizzante per il mondo nuragico, un sistema e un modello urbano. Ahimè, non basta un desiderio ideologico di (anche comprensibile) rivalsa, e qualche pur vasto tracciato georadar ad affermare che i nuragici avessero una città e uno stato.”
Allora, se è sbagliato affermare che “i nuragici avessero una città e uno stato”, è altrettanto sbagliato affermare il contrario.
Se è affrettato trarre delle conclusioni definitive dai rilevamenti del georadar, è altrettanto affrettato negare che queste conclusioni si siano fatte molto più verosimili dopo i rilevamenti con il georadar.
Le parole di Madau si rivoltano quindi contro il suo stesso autore: “Ahimè, non basta un desiderio ideologico di (anche comprensibile)” di aggrapparsi ai paradigmi dell’archeologia ufficiale.
Sottoscrivo con entusiasmo allora le conclusioni di Madau: “Io direi in ogni caso di aspettare gli scavi e le successive elaborazioni scientifiche, e di prepararci naturalmente a grandi e credo anche impreviste novità.”
Questo è esattamente quello che penso.
Madau dice con altre parole quello che ho detto io: prepariamoci a dire addio alla Sardegna di Lilliu.
Altrimenti dove sarebbe la novità?
Quanto a Lilliu, Madau ne prende le difese d’ufficio, ma non può cambiare il fatto che Lilliu, pur ammettendo la necessità di un cambiamento paradigmatico, dopo le scoperte di Monti de Prama, non abbia mai fatto niente per rendere note al grande pubblico le correzioni del suo pensiero.
Lilliu ha plasmato la visione che i sardi hanno–o avevano di se stessi–con parole come le seguenti, pubblicate DOPO la scoperta dei Giganti: ”
Queste parole, copiate e incollate da uno dei suoi ultimi lavori, lasciamo poco spazio ai dubbi:
“La Sardegna non ha mai avuto una storia politica nazionale;
e, cioè, non è stata mai una “nazione”. Frammento d’un
vecchio esteso continente alla deriva, isola nell’isola, chiusa,
per uno stretto giro radente le sue coste frastagliate, dal mare
e per un largo cerchio dalle più vaste e potenti terre delle
Penisole iberica e italiana e dall’Africa continentale, l’antica
zolla, che i Greci assomigliarono a un piede umano, ebbe segnato
in parte dalla natura stessa il suo destino che la sua
gente – ed altre genti su di essa sopravvenute d’ogni parte –
perfezionarono con spietata coerenza. Effetto di quella sorte
fu la condanna della ventosa terra arcaica, posta fra mare e
cielo, a una pittoresca immobilità; quasi a far da mostra, o da
sedimento, ad un mondo ancestrale e chiuso, durante lo
svolgersi di mondi e di umanità più recenti e in moto; a diventare
l’immagine didattica della preistoria nella storia.
La storia della Sardegna giunse, così, a stento, e nel suo
culmine, a storia del “cantone”; ma, in generale, si fermò alla
storia del “villaggio” e, dentro il villaggio, a quella del clan, e,
dentro il clan, a quella del gruppo familiare. Fu, in ogni caso,
storia senza aperture, frazionata e sospettosa, fuori dalla percezione
esatta e dal gusto di vasti commerci materiali e spirituali;
lontana, appunto, dal senso unitario, attrattivo ed espansivo,
che ha la storia d’una terra e di una gente maturata a
concetto e pratica di “nazione”. Emilio Lussu che, fra gli uomini
politici sardi contemporanei, è certo quello più fortemente
caratterizzato alla sarda ed ha insieme il sapore del mondo, ha
colto e descritto, in un articolo recente, questa drammatica situazione
storica della sua Isola, che dura ancor oggi.
Questo dramma è, in sostanza, il complesso d’inferiorità
storica che esiste da millenni, covato nel segreto e nel rancore
dal popolo sardo e scontato, da quest’ultimo, su se stesso, per
non poterlo far pagare agli altri. È il dramma della libertà perduta
da una gente forte e culturalmente fattiva, proprio nel
momento in cui si apprestava a passare dallo stadio del villaggio
a quello di città e a costruire sulle proprie esperienze,
saggiate con quelle altrui, le fondamenta per diventare “nazione”
ed evadere dalla stretta della “isola”. Sforzo solidale spezzato
dallo straniero, più forte e organizzato, al culmine e nella
tensione più ardita alla speranza e alla brama. Questa battaglia
perduta da un popolo in movimento, schiantò la gente sarda;
e si originò il dramma della Sardegna, che è quello d’una pittoresca,
ma sconfortante, fissità e angustia: e cioè il dramma
del villaggio che non si è fatto città, a causa dello straniero.
Timidità ed orgoglio (che è in fondo ben celata invidia); rinunzia,
dispetto e odio (che è amarezza e rancore di mancata
conquista) furono le conseguenze psicologiche della sconfitta.
E la gente, fermata ad agire nello spazio delle poche miglia
del villaggio, entro i limiti che assunsero per livore il significato
di frontiera fra Stato e Stato, fedele a una legge che non
volle fosse quella codificata dallo straniero, si ridusse, contentandosi
per forza, a produrre piccole e anguste cose, come
piccolo e angusto era il tratto di terra assegnatole.
Così dal villaggio non uscì, come non esce ancora in Sardegna,
la cosa grande o l’uomo grande: non il genio politico,
non il filibustiere d’alto bordo o il santo splendido, non il pensatore
d’eccezione o l’artista di fuoco. Nacque invece, e nasce
ancora, il folklore che si configura nei più svariati aspetti,
per nulla eccezionali ancorché – taluni – suggestivi e coloriti.
Il folklore si espresse, in politica, con la protesta libertaria vana
e querula già notata da Cicerone ai suoi tempi e, nel Medioevo,
coi Giudicati che si combatterono a lungo fra di loro. Esso
riduce i conquistatori al grado dei mastrucati latrunculi dell’Arpinate,
che sono la stessa cosa degli attuali banditi d’Orgosolo;
limita i mistici al poverello francescano Ignazio da Laconi,
uscito dalla gente dei pastori; e, se si eccettui e non in
tutto la Deledda (anch’essa uscita dallo spazio comunistico e
contemplativo dei pastori), esaurisce la lirica in poche improvvisazioni
dei cantori in vernacolo, e consuma la rara poesia
delle arti figurative nel bianconero delle xilografie, che sono
meste e asciutte come il paesaggio e l’anima isolana.
(Pensieri sulla Sardegna:165-166, inhttp://www.sardegnacultura.it/documenti/7_26_20060401174110.pdf)
Questo documento, ripubblicato da Ilisso, nel 2002, contiene la visione della Sardegna del Babbu Mannu della cultura sarda.
Ecco, tanto per essere precisi.
Non sono un archeologo, non ho nessuna pretesa di esserlo, ma sono un sardo non del tutto ignorante e il passato della mia terra appartiene anche a me.
“